mercoledì 6 maggio 2009

Torni la Luce


Premettiamo di provare estremo fastidio trattando di codesti argomenti, che ci illudevamo di credere confinati nelle cronache della Historia Augusta, del basso Impero, nelle pagine più colorite di Tacito, nelle Satire di Giovenale, nelle storie bizantine di Procopio. Oggidì si travalica il segno. Per cui a coloro che son liberi e di buoni costumi è necessario, anche per la dignità di quel tricolore che si deve additare, nel senso dell'Unità italiana, ai propri figli, vergare parole dure e chiare. Non scritte. "A' megghiu parola", ha riportato il dottor Falcone nel suo libro, "è chidda cà non si dici": antico proverbio siculo.
Queste le straordinarie frasi dette, e riportate il 3 maggio, dalla signora Vernica Lario, nome artistico di Miriam Bartolini, consorte in via di separazione e poi divorzio (si sa che l'iter in Italia è lungo) del presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi: "Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… perché la ragazza minorenne la conosceva prima che compisse 18 anni: magari fosse sua figlia…". "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile". Tali affermazioni, ben più della smentita del presidente, trasmessa la sera del 5 maggio in diretta tv su Rai 1, hanno una valenza politica, sociale, se ci si permette Etica e psicologica, molto grave. Infatti la seconda di esse è stata massimamente ignorata dalle televisioni e dai giornali asserviti ai grandi gruppi finanziari ed industriali. In clima di notevole recessione sociale, non è possibile stendere il classico velo pietoso. Occorre indagare colla luce delle verità che provengono dal profondo, di ognuno di noi. Verità parziali per forza di cose; sfaccettate, impalpabili. Nessuno le possiede in toto.
Bisogna nondimeno dare atto a pochi ma coraggiosi, e famosi, colleghi giornalisti di tenere desta l'attenzione su codesto problema che, se si fosse presentato nelle proporzioni nelle quali è in qualunque altra Nazione d'Europa e delle Americhe, avrebbe come minimo provocato le dimissioni dell'accusato. Tra costoro, oltre il valente Michele Santoro, è bene rammentare il collega Marco Travaglio, il quale fra l'altro ha ricevuto qualche giorno fa il premio per la libertà di stampa dalla associazione Djv dei giornalisti tedeschi, ed in tale occasione ha dichiarato a Berlino che in Italia la libertà di stampa "esiste sulla carta, ma non molto sulla carta stampata e quasi per nulla sulla televisione", manifestando uno stato di fatto gravissimo per la democrazia, il quale tuttavolta trova le scaturigini nella anomala situazione nella quale la Nazione si trova. Forse, da noi non accadrà nulla. In ogni caso, non si potrà dire che siamo rimasti zitti.
Non esprimiamo commenti, solo un riferimento storico, privo di attinenza coi fatti odierni, epperò a nostro avviso utile onde far riflettere. Il 29 luglio del 1943, in piena tragedia nazionale, appare nel diario del generale Paolo Puntoni, ajutante di campo del Re Vittorio Emanuele III (il Duce era stato sostituito quattro giorni prima dal Maresciallo Pietro Badoglio), la seguente riflessione del Sovrano, confidata al suo collaboratore: "Per me, ha detto Sua Maestà, molta colpa è di quella donna. A sessant'anni non si possono commettere certe intemperanze! -Uscendo poi dal suo consueto riserbo, mi ha citato, ridendo, un proverbio napoletano che suona press'a poco così: Quando per amore si va in gloria, la capa di sopra perde 'a memoria" (pag. 149 del vol. "Parla Vittorio Emanuele III" di P.Puntoni, Bologna 1993). "Quella donna" era la Claretta Petacci, che seppe morire con coraggio, assassinata barbaramente, accanto all'uomo che amava; persino donna Rachele ha per lei parole di perdono e di companto, nel libro delle sue memorie.
In fine, rammentiamo le parole che Giuseppe Garibaldi,la cui adamantina coerenza ideale splende intemerata, rifiutando di sedere in Parlamento nel 1880, scriveva a modo di testamento ai suoi seguaci: "Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non quella miserabile all'interno ed umiliata all'esterno, ed in preda alla parte peggiore della Nazione". Vi sono, lo crediamo fermamente, in Italia uomini d'onore e d'onestà i quali possono affermare col personale esempio, quel che disse il selvaggio nella volterriana Storia di Jennì: "Il mio Dio è là-, e mostrò il cielo; -la mia legge è qui dentro, e si mise la mano sul cuore", senza circonlocuzioni dogmatiche o barocche. Per tali motivi, purificate le acque dalla lutulenza, tornerà anche nella Patria nostra, la Luce.

mercoledì 22 aprile 2009

Sul tempio - terme della Rotonda



Nel 1997 lo studioso Francesco Giordano, autore di questo blog, per i tipi dell'editore Greco ha pubblicato la monografia, sinora unica e di carattere storico scientifico nonché ricca di documenti, "La Rotonda. Mito e verità di un tempio catanese" (per sua scelta, non percependo alcun compenso); il libro, che è in commercio tuttora, ha avuto ampio riconoscimento anche da enti pubblici, ed è presente in diverse biblioteche italiane ed estere. Se ne riproduce qui la copertina, la cui foto è del medesimo autore,
Il 23 febbrajo 1997 la Chiesa di Santa Maria della Rotonda ha ricevuto, per volontà di Francesco Giordano, la visita di una delegazione religiosa capeggiata dall'Esarca della Chiesa Cristiana Ortodossa d'Italia, Metropolita Ghennadio, unitamente all'allora Console di Grecia in Catania Mefalopulos ed al presidente dell'Associazione Siculo Romena Lo Meo. I convenuti hanno ivi intonato una preghiera rivolta ad oriente, di cui rimane testimonianza filmata, riconsacrando virtualmente il tempio al culto della Vergine Partènos, al quale in origine era stato dedicato.
Apprendiamo che recentemente è stato presentato il volume collettaneo, edito nel 2008 dalla Regione Siciliana, a cura di M.G.Branciforti e C.Guastella, "Le terme della Rotonda"; in esso alcuni studiosi han raccolto i risultati della campagna di scavi ivi svolta negli ultimi anni. Leggiamo dalla cronaca locale che "i lavori di scavo e di studio eseguiti nell'ambito del Por Sicilia 2000-2006" hanno avuto "un investimento di 740.000 euro al netto dei ribassi d'asta" (La Sicilia on line 18 aprile '09). Nel constatare, per una di quelle evidenti sviste dovute forse alla fretta di realizzazione, che nella bibliografia di codesto libro, l'opera anzidetta del Giordano non è citata, si plaude alla iniziativa che in ogni modo ha il merito di far conoscere uno dei luoghi più belli, e assaj poco noti, della Catania antica, dal fascino irresistibile.
La precisazione è stata pubblicata a pagina 36 del quotidiano "La Sicilia" il 23 aprile del corrente anno 2009, nella rubrica "Lo dico a La Sicilia".

martedì 21 aprile 2009

La poesia Mors et vita di Mario Rapisardi letta da Francesco Giordano

Presentiamo una video lettura della poesia Mors et vita, di Mario Rapisardi, dalla raccolta delle "Poesie religiose", edita nel volume unico per i tipi di Sandron, 1911. La voce è di Francesco Giordano. Il sottofondo è la nota sinfonia n°5 in do min. op.57, II movimento, di Ludwig Van Beethoven, il musicista prediletto del Vate catinense, nella esecuzione (30 giugno 1943) della Filarmonica di Berlino diretta da W.Furtwàngler. La fotografia risale al 1889, allorché il Poeta era quarantacinquenne.

venerdì 17 aprile 2009

Mario Rapisardi e la musica


Sul rapporto fra Mario Rapisardi, la musica ed i musicisti, mentre è acclarato che molto vi sarebbe da scrivere sulle connessioni tra l'opera poetica rapisardiana e gli echi musicali del tempo, si può affermare senza tema di smentite che le preferenze del Vate etneo erano orientate verso l'alma favilla di Ludwig Van Beethoven, in modo prevalente ma non esclusivo. Leggiamo i documenti.
"Tu intanto che fai? Che pensi? come passi le lunghe ore della nostra lontananza? Occupati quanto più puoi: suona spesso e molto, specialmente Beethoven e Mendelssohn. Così ti parrà esser vicino a me: tu sai che io adoro la musica di quei due sovrani ingegni..." Mario Rapisardi ad Amelia (sua compagna di vita, dopo la separazione dalla moglie Giselda), da Roma 28 sett. 1886, albergo della Minerva (In "Epistolario di M.Rapisardi" a c. di A.Tomaselli, Catania 1922, pag.232). Pertanto anche Felix Mendelssohn era tra i prediletti del Poeta. Risulta da molte fonti che una delle qualità che il Rapisardi apprezzò massimamente nella bionda fiorentina d'estrazione nobiliare polacca, che lo seguì in Catania dopo le note vicende familiari, era proprio la sua abilità pianistica.
Ancora egli ribadisce all'amico carissimo Calcidonio Reina "Di questi ultimi giorni sono stato in vena, e ho scritto qualcosa che non ti spiacerà. Quanto più mi stacco sdegnoso da questa generazione che non comprendo e che non mi comprende, tanto più l'anima s'inalza a l'Ideale, e i miei versi perdono i contorni e si confondono con la musica. E in musica vorrei scrivere. Oh divino Beethoven! Sentirai". (in "Lettere di M.Rapisardi a C.Reina" a c. di A.Tomaselli, Palermo 1914, pag. 120). Codeste lettere private dirette ai più cari affetti dimostrano quanto il Rapisardi identificasse in certo senso la sua vena poetica colle melodìe beethoveniane. Inoltre era noto che l'Amelia soleva intrattenerlo, nella casa "aerea" del Borgo, onde dilettarne l'animo, al pianoforte sonando musiche del genio di Bonn. Oltre le testimonianze degli amici, v'è una istantanea fotografica che tale momento immortala: è quella che qui si pubblica, databile nell'ultimo decennio del XIX secolo, molto probabilmente del fotografo catanese Grita, amico del Vate. Un quadretto tipico dell'ottocento siciliano, per cui "l'arredamento della casa di Mario Rapisardi era quello del più modesto borghese", scrive in uno dei suoi deliziosi articoli sentimentali, Saverio Fiducia. Ora alcuni di quei mobili e quadri sono nella 'stanza Rapisardi' ubicata nei locali della Biblioteca Civica nell'ex monastero Benedettino.
In una occasione particolare Mario Rapisardi, trovandosi in Napoli, fu festeggiato dagli amici e, certo su suo suggerimento, l'Amelia Poniatowski Sabèrnich, che lo accompagnava, suonò in pubblico proprio Beethoven. Così la cronaca di quell'estate del 1888: "Iersera nella luminosa sala pompeiana dell'Hòtel Vésuve, tra un fine pubblico cosmopolita, era a fargli festa una eletta schiera di artisti con a capo per autorevole anzianità il comm.Saverio Altamura... Mario Costa cantò delicatamente, come suole, le canzoni italiane, francesi, napolitane del suo abbondante, copiosissimo repertorio... Nadina Bulicioff, che è pur lei per pochi giorni ospite dell'Hòtel Vésuve e che con gentilezza pari al talento aveva organizzata la piccola serata musicale in omaggio al poeta, volle dare al programma di questa serata le preziose attrattive della sua voce e della sua arte. Cantò, non c'è bisogno di dire come nè fra quale entusiasmo, parecchi pezzi di Gounod, di Meyerber, di Bizet. L'Amelia suonò con uno slancio, un colorito, una agilità, un sentimento ignoti a molti pianisti di professione un'ouverture di Weber, una sonata di Beethoven: musica classica, stupendamente interpretata, che suscitò gli applausi più vivaci ed entusiastici. E poi Costa daccapo: Menotti Frascati cantò Scetate... la signorina Sofia Frascani cantò col Costa il duetto E vota e gira. Ad ora tarda si finì con un coro e con una lunga unanime acclamazione ch'era pure un ultimo cordiale saluto all'amico, al poeta..." (ne "Il Pungolo", Napoli 17-18 agosto 1888). Il Rapisardi nondimeno, più che compiacersi delle feste, se ne lamentava con l'amico Calcidonio: "... se io non mi fossi mosso di qui, penso, sarebbe stato meglio: non avrei avuto le accoglinze oneste e liete, e le feste con guarnitura di Bulicioff, ma avrei goduto della tua compagnia fino a novembre..." (a C.Reina, 27 ago.1888, in "Epistolario..." cit. pag. 271). Evidentemente egli vedeva nel cuore dei molti, ed apprezzava la rara sincerità dei pochi.
Al musicista catanese F.P.Frontini, che musicò sue liriche e che egli raccomandava (lettera del 23, 1904: "...l'opera della commissione potrà essere molto agevolata da quei cittadini... fra i quali mi permetto rammentare alla SV. i signori Guseppe Giuliano, F.P.Frontini...") al Sindaco di Catania per la Commissione belliniana che s'interessava allora all'acquisto della casa natale del 'Cigno' etneo, scriveva altresì: "Tutte le arti, mio caro, non soltanto la musica, vano a rotta di collo verso il manicomio, che già spalanca i battenti a riceverle. Rimaner fermo al suo posto contro la furia della pazza corrente, è dovere di chiunque abbia per l'Arte, per la gloria e per l'onore d'Italia un culto disinteressato e sublime...", consigliandogli infine: "guardi il genio di Verdi, sereno fra la gazzarra wagneriana: si andò rinnovando fino all'estrema vecchiaia, ma restò sempre lui, ed ora si gode beato la giovinezza immortale. S'ispiri, senza scoramenti, all'esempio dei grandi; scriva come il cuor Le detta..." (a F.P.Fontini, 9 apr. 1906, in "Epistolario..." cita, pag. 398).
Per concludere, segnaliamo che l'allor giovine musicista trecastagnese Gianni Bucceri (autore della nota Mariedda, del Miles Standish e di Graziella; moriva in dignitosa povertà all'Ospedale Vittorio Emanuele di Catania nel 1953, "sanissimo tra gli ammalati", scrisse Turi Nicolosi) compose un "Inno a Rapisardi", eseguito in pubblico il 22 gennajo 1899 al giardino Bellini, durante l'inaugurazione del monumento bronzeo raffigurante il Poeta, opera del Civiletti (così riferiscono le cronache delle Onoranze al Rapisardi, raccolte nel volume a cura di A.Campanozzi, edito in Catania nel 1899).


Una specie verrà, che da la torma
Nostra, dagli anni e dal dolor contrita,
A più alti destini, a miglior forma
Divinamente inalzerà la vita.
A te, stirpe sovrana, i ferrei nodi
Sciorran gli Enimmi, onde sì fiera in noi
Lasciò la Sfinge i freddi artigli infissi;
Sveleran le Cagioni ultime a' tuoi
Sguardi il semplice ordito, e in nuovi modi
Regnerai con amor cieli ed abissi.


M.Rapisardi, dal poemetto "L'impenitente"



(FGio)

martedì 31 marzo 2009

Ai giusti ed ai peccatori, dal Libro di Enoch


Difficile è trovare delle parole anche solo di veloce commento, riguardo il turbine degli accadimenti che ci stanno travolgendo: la depressione, etica ben più che economica, la quale investe l'Occidente e l'Oriente è la fine di un modello, sbagliato per noi, di società, quello basato sul capitale e sul profitto a tutti i costi, senza rispetto verso la Natura e l'Uomo. Inoltre, l'attuale governo nazionale è sommamente incapace, per non dir altro, di affrontare anche da lunge, la estrema criticità del momento. Non troviamo altre riflessioni, che quelle pronunciate dal saggio Enoch, tratte dal volume "Il libro di Enoch", a c. di M.Pincherle e L.Palazzini Finetti (Faenza 1977), p. quinta, "Il libro delle esortazioni". Come è l'esempio personale a dirigere la volontà, così essa svolgerà la falce della Giustizia:


Ed ora io vi dico, figli miei, amate la rettitudine e praticatela, perché i sentieri della rettitudine sono degni di accettazione,
mentre i sentieri dell'ingiustizia verranno improvvisamente distrutti e scompariranno.
Ed a certi uomini di una generazione i sentieri della violenza e della morte saranno rivelati,
ed essi si terranno lontano da essi e non li seguiranno.
Ed io dico ora a voi, giusti:
non prendete i sentieri della malvagità nè quelli della morte,
e non avvicinatevi a essi, altrimenti sarete distrutti.
Ma cercate e scegliete rettitudine e una vita eletta
e camminate sui sentieri della pace,
così vivrete e prospererete.
E rammentate bene le mie parole nei pensieri dei vostri cuori,
e fate sì che esse non vengano cancellate:
sappiate che i peccatori spingeranno gli uomini a disprezzare la Saggezza,
perché non vi sia posto per essa,
e non lesineranno a ciò nessuna tentazione.
Guai a coloro che creano ingiustizia ed oppressione,
e si basano sull'inganno
perché essi saranno improvvisamente abbattuti,
e non avranno pace.
Guai a coloro che costruiscono le loro case col peccato;
poiché tutte verranno divelte dalle fondamenta,
ed essi verranno trafitti a fil di spada.
Guai a voi, ricchi, poiché avete posto la vostra fede nelle ricchezze
e dovrete separarvi da esse
poiché non avete ricordato l'Altissimo nei giorni della vostra prosperità.
Voi avete commesso azioni blasfeme ed ingiuste,
e siete ormai pronti per il giorno dell'eccidio,
dell'oscurità e del grande giudizio.
Perciò io parlo e vi dichiaro:
Colui che vi ha creato, vi abbatterà,
e per voi non vi sarà compassione,
ed il vostro Creatore si compiacerà della vostra distruzione.
Ed i giusti, in quei giorni, saranno rimprovero vivente per i peccatori e gli empi.

venerdì 27 marzo 2009

La poesia Felicitas di Mario Rapisardi letta da Francesco Giordano

Ci permettiamo di proporre una video lettura della poesia Felicitas, di Mario Rapisardi, presente nella raccolta definitiva delle "Poesie religiose", edita nel volume unico per i tipi di Sandron, 1911. La voce è di Francesco Giordano. Il sottofondo è la nota sinfonia n°5 in do min. op.57, I movimento, di Ludwig Van Beethoven, il musicista prediletto del Vate catinense, nella esecuzione (30 giugno 1943) della Filarmonica di Berlino diretta da W.Furtwàngler. La fotografia fu scattata al poeta, sessantasettenne e già ammalato, nell'aprile 1911, "sul terrazzo, presso il roseto" (Tomaselli) della casa del Borgo, in Catania, ove visse negli ultimi anni.

martedì 17 marzo 2009

Stemma di Francesco Giordano


Sin dall’antichità, la figurativa umana si esprime per simboli. Siccome l’uomo ha in sé l’istinto della conoscenza e quello della guerra, invalse l’uso di pingere nelle armi i propri simboli: donde l’abitudine di apporli nello scudo, arma di difesa e protezione. Lo stemma, familiare (ovvero borghese) o gentilizio, altro non è che metafora dello scudo, antico e medievale.
Celeberrimo lo scudo di Achille, epifania di ogni araldica e visione simbolica e filosofica del mondo: Teti divina lo commissiona insieme all’elmo ed alla lorica, a Vulcano il dio fabbro e del fuoco, a causa della perdita delle armi del Pelìde trafugate dai Teucri, dopo la morte di Patroclo che le indossava. La descrizione di codesto scudo, occupa ampia parte del XVIII canto dell’Iliade omerica, divenendo ierofanìa sacra, axis dell’universo di cui Achille è il fulcro, mitopoieticamente:


"… primamente
un saldo ei fece smisurato scudo,
di dedaleo rilievo, e d’auro intorno
tre bei fulgidi cerchi vi condusse;
poi d’argento fuor mise la soga.
Cinque dell’ampio scudo eran le zone;
e gl’intervalli, con divin sapere,
d’ammiranda scultura avea ripieni.
Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo
E il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, e gli astri diversi, onde sfavilla
Incoronata la celeste volta,
e le Pleiadi, e l’Iadi, e la stella
d’Orion tempestosa, e la grand’Orsa,
che pur Plaustro si noma. Intorno al polo
ella si gira ed Orion riguarda,
dai lavacri del mar sola divisa.
Ivi, inoltre, scolpite avea due belle
Popolose città…
Vi sculse poscia un morbido maggese
Spazioso, ubertoso e che tre volte
Del vomero la piaga avea sentito…
Altrove un campo effigiato avea
D’alta messe già biondo…
Seguia quindi un vigneto oppresso e curvo
Sotto il carco dell’uva…
Di giovenche una mandra anco vi pose
Con erette cervici…
Facevi ancora il mastro ignipotente
In amena con valle una pastura,
tutta di greggi biancheggiante, e sparsa
di capanne, di chiusi e pecorili.
Poi vi sculse una danza, a quella eguale
Che ad Arianna dalle belle trecce
Nell’ampia Creta Dedalo compose…
Il gran fiume Oceàn l’orlo chiudea
Dell’ammirando scudo
"
(Trad. V.Monti, vv.663-842)


Si lascia ad ognuno l’interpretazione esoterica di quei numeri non casuali segnati dal poeta cieco di Chio, nella descrizione immaginifica dello scudo; il quale, nel canto successivo, egli precisa insieme alle altre armi ben composte da Vulcano, emettere un suono "che terror mise" agli stessi Mirmidoni, i compagni di Achille, tanto che fuggirono: il che sta a dire la potenza divina della musica delle sfere, di cui millenni dopo Isacco Newton si occupò.
La radice sanscrita, del resto, del termine greco ‘stemma’, donde il nostro significato di arma araldica, è ‘render fermo, saldo, compatto’. Da qui la significanza gnostica, se ci si passa il termine. Il deflusso verso l’araldica appare a questo punto, evidente e scontato. "Gli stemmi sembrano cosa affatto moderna e medioevale", argomenta alla voce relativa P.Guelfi Camaiani, nel suo "Dizionario araldico", 3°ed. 1940, "eppure già se ne trova vestigio nell’antichità", citando Cesare che avea una farfalla ed un granchio, Pompeo un leone con spada, Augusto una sfinge; ed aggiunge: "ma gli stemmi moderni, di colore stabilito, e impronta e inquartature, ereditarii ne’ suggelli, nelle divise e sulle bandiere, e che appunto si dissero arme o scudi perché su questi soleansi disegnare, si introdussero non prima del secolo XI, e massime in occasione delle crociate". Pressappoco nel medesimo periodo nasceva l’Araldica, scienza dello studio de’ blasoni.
Nel XXI secolo, come jeri nel XX, essa appare non diremmo negletta, ma studiata dagli appassionati. E’ forse il suo destino. Tuttavolta, benemeriti istituti e centri di studio, ne perseguono la conservazione nella tradizione, epperò, come deve essere nel tempo della tecnologia informatica, adeguandosi con intelligenza a’ nuovi modi di comunicazione.
Lo stemma, familiare (o borghese) e gentilizio di Francesco Giordano, è nel solco della predetta istoria. La famiglia, nel ramo siculo, è d’ascendenza normanna (vedasi la Storia dei Musulmani in Sicilia dell’Amari, col Giordano figlio del Gran Conte Ruggero d’Altavilla) e di antico ceppo romano, trapiantato in Napoli nel XVI secolo: ivi ebbe da Re Carlo III dopo la conquista del Regno delle Sicilie, poiché ivi infeudata e possidente, il titolo di Duca dell’Oratino, una borgata (ora comune) del Molise. Il titolo fu riconosciuto dalle LL.MM. i Re d’Italia, fino a Vittorio Emanuele III di Savoja, al ramo principale; Francesco Giordano, che discende da quest’ultimo, non ha chiesto sinora all’attuale Casa Savoja il riconoscimento formale di esso. Anche perché la Repubblica Italiana, non del tutto a torto nella sua ispirazione ‘socialisteggiante’, come è noto dalla XIV disposizione ‘transitoria’ della Costituzione, non riconosce i titoli nobiliari (e quindi, secondo i giuristi del settore, neppure tutela gli stemmi, se non quelli di città ed istituzioni dello Stato). Del resto, l’essere monarchici (come l’essere repubblicani, per esempio nella concezione degli Stati Uniti d’America), jeri come oggi, è un sentimento, prescindente da ogni steccato, opinione, discrimine: il riferimento reale nonché ideale rimane il Sovrano di Gran Bretagna, attualmente S.M. Elisabetta II, Capo del Commonwealth. Pertanto Francesco Giordano usa, all’occorrenza, il titolo di Barone di Sealand, concessogli dal Principato omonimo sorgente di là dalle acque territoriali del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord (da cui è implicitamente riconosciuto, giusta una sentenza di quella Magistratura), noto per la sua eterodossa creazione nel 1967 nonché per la creatività (recentemente è stato concesso il titolo di Barone di Sealand al Dalai Lama).
Pare qui utile precisare che il possesso e l’uso di stemmi, come si sa dalla folta pubblicistica araldica degli stati d’Europa, monarchici e repubblicani, nonché dai popoli delle Americhe, è prerogativa diffusa più fra i borghesi non detenenti titoli gentilizi, che tra questi ultimi: così fu per esempio in Italia, a’ tempi dell’Alighieri; così è in gran parte del mondo, attualmente. Rafforza la questione l’intiera araldica vaticana: escludendo la numerosissima pletora di ecclesiastici minori che dal popolo pervennero ai fastigi delle alte cariche, se vi fu il Principe Pacelli, avente diritto al titolo ed allo stemma in quanto tale, divenuto Sommo Pontefice col nome di Pio XII, il successore Giovanni XXIII, figliolo di contadini ed orgoglioso di esserlo, si fregiò di augusto stemma; così i successori, tra cui il figlio dell’operaio socialista Luciani, poi splendente Papa Giovanni Paolo I, l’ex operajo della Solvay Giovanni Paolo II, e l’attuale Santo Padre, figliolo di agricoltori, Benedetto XVI. L’equazione stemma-nobiltà non è automatica, anzi sovente appare storicamente errata, se non fuorviante, ove letta in ampio e lungo contesto storico. V’ha da aggiungere che lo stemma negli ultimi secoli fu legato al possesso del feudo, in particolare nel sud dell’Europa (in Sicilia in particolare): era, ed è, la terra che dona in certo senso spiritualmente, il diritto a fregiarsi di esso. Come accade per motivi storici, pur giocando sull’equivoco lessicale (vedasi i "lord" ed i "laird" scozzesi) nel Regno Unito anglico.
Non si vuole qui spiegare la simbologia dello stemma di Francesco Giordano, essendo un segreto, come tale incomunicabile. Si afferma solamente che le figurazioni albergano da secoli nel patrimonio della famiglia. Satis est potuisse videri. Il Centro Studi Araldici, benemerita istituzione (www.stemmario.it) che su Internet rappresenta la massima congerie dei blasoni delle famiglie italiane, borghesi o nobili che siano, e come tale in quanto organizzazione privata costituisce fondamentale registro a tutela di quel bene personale assimilabile al nome (chiarisce la giurisprudenza araldica) che è appunto lo stemma, ha comunicato a Francesco Giordano di aver registrato e protocollato, nelle settimane scorse, il suo stemma secondo la seguente blasonatura:
"Sbarrato ondato d'azzurro e d’argento, con il capo d’oro a due croci sovrapposte, la prima decussata greca scorciata patente a punta di lancia, la seconda greca scorciata trilobata, nere, entrambe vuotate in centro di un quadrato".
Lo stemma di Francesco Giordano si trova online nelle pagine del sito di Stemmario Italiano.
Piace pubblicare codesto post, nel giorno che commemora il 148° anniversario della proclamazione, da parte del Parlamento all’epoca in Torino, del Regno d’Italia, nella persona di S.M. Vittorio Emanuele II "per grazia di Dio e volontà della Nazione" sovrano della Patria finalmente unita.
Per i Siciliani, ciò è particolarmente importante. "Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi" (G.Tomasi di Lampedusa, "Il Gattopardo").