giovedì 24 settembre 2009

“Catania nella memoria”, ovvero un libro che è atto d’amore

In occasione della giornata mondiale per la lotta all’Alzheimer, la nota malattia degenerativa del cervello di cui misteriose sono le cause e tristissime le conseguenze, anche Catania ha voluto svolgere la sua parte: così il 21 settembre al cortile Platamone, col patrocinio del Comune nonché di molte associazioni culturali unite per codesto fine, l’Associazione Malati di Alzheimer ha, con un convegno ed un finale intrattenimento canoro, voluto incontrare il numeroso e qualificato uditorio intervenuto, onde sensibilizzare e sostenere la ricerca per tale morbo. Proprio a tale scopo, l’Associazione culturale Akkuaria presieduta da Vera Ambra, ha fortemente voluto la edizione di un volume antologico, "Catania nella memoria", a sostegno della importante iniziativa. E se la serata, coincidenza forse non casuale, dell’equinozio di autunno, si concluse con le narrazioni piacevoli e armonicamente sonore dei cantastorie Carlo Barbera (che intrattenne sul ‘cuntu’ di Ulisse e Polifemo) e di Alfio Patti (il quale dipanò un pout-pourri di canzoni della tradizione siciliana, inframmezzate da poesie e aneddoti), quel che rimane, come insegnano tutte le manifestazioni di tal guisa, è appunto la parola scritta. Pertanto il volume collettaneo edito dall’Associazione Akkuaria, curato da Vera Ambra –il quale si può richiedere direttamente tramite il sito del sodalizio, o trovare nelle librerie- è testimonianza tangibile del momento in sé contingente.
Un libro variopinto, che si è voluto anche definire "viaggio alla scoperta della catanesità". Difficile, negli ultimi tempi quasi soffocati da pubblicazioni sovente inutili e che nessuno leggerà, coniugare la estrema modernità colla più pura tradizione. Difficile parimenti riscontrare un ‘sì originale connubio, ove alla intelligente raccolta attenta e coerente di storie, poesie, monumenti, luoghi , leggende e modi di dire riguardanti quella che il recentemente scomparso, e compianto, storico Santi Correnti appellò "la città semprerifiorente", si alternano dòtti studiosi, scrittori e poeti, investigatori della parola non paludati nelle mutrie accademiche ma sovente operanti su Internet (è il caso, di lieto esito, del gruppo che sul network Facebook ha contribuito con l’utilissimo dizionario delle parole in vernacolo catanese, molte ignote ai più). Quindi l’unirsi delle nuove tecnologie con gli usuali stilemi della ricerca, ha potuto far sì che l’iniziativa voluta da Vera Ambra, donna appassionata di letteratura, poeta e narratrice ella medesima, che dell’amore per la diffusione del verbo culturale in Sicilia e nell’intera Nazione nonché nel mondo, attraverso le numerose iniziative e contatti con scrittori di varie nazionalità, ha fatto il proprio obiettivo primario, quasi una scelta di vita, rimanga concretamente quale atto di amore, con caratteristiche uniche. Ideare una antologia è opera di responsabilità, che comporta delle scelte permanenti. Molto altro vi sarebbe stato da dire, da aggiungere, da integrare: tuttavia il testo si sarebbe trasformato in un ‘mattone’, magari accettabile sotto il profilo della completezza, ma inutilizzabile dal punto di vista pratico. Ed il libro, sovente lo si dimentica, è anche, forse sovra tutto, un ‘oggetto’ pratico, non solo scrigno dell’Ideale.
Sfogliando il volume, si possono infatti leggere, vergati da autori quali lo scrittore Aldo Motta, il docente universitario Antonio Di Grado (che in un delizioso ‘cameo’ ricorda la genesi culturale di via Alessi), lo studioso e giornalista Francesco Giordano (sul settecentesco palazzo Fassari Pace, mai prima studiato, di via Vittorio Emanuele), ed altri apprezzabili per intensità di stile, pagine appassionate ed interessantissime, le quali documentano la simbologia, il mito, la realtà e la leggenda vivente della vulcanica patria di Sant’Agata e di Bellini, i cui duemila e settecento anni di storia son perennemente vivi e densi di creatività artistica, nonostante le numerose distruzioni, e la ferrea volontà di risorgere come fenice dopo il furioso rogo. "Catania è una città che sento forte come una madre, tiranna, gelosa, possessiva, avara e generosa. Catania, imponente e brontolona, è ancora oggi una parola che navigava lungo la rotta di quella speranza che colma la distanza fra l’illusione… per certi versi astratta eppure concreta, mimetizzata come la lava sull’Etna: così la percepii dal primo istante che mi prese per mano e mi incatenò con i suoi colori, i suoni, i suoi odori": tale è la parola di Vera Ambra, nel filo dei ricordi tracciato nel paragrafo "Il cuore stantuffava"; così la malìa arcana che avvince coloro che dalla figlia primigenia dell’Etna, la montagna per eccellenza, vengono avvolti, siano nativi della città o adottivi, è indissolubile. E però foriera di grandi passioni e di grandi illusioni: "Sanguini \ indomita \ irrequieta \ accanto ai tuoi figli \ e poi regali \ spiragli di speranze \ come acini d’uva \ sul profumo \ del melograno \ dimentico \ della nerazzurra onda \ ai piedi del tuo Vulcano". In tali versi, sempre della Ambra, notiamo sintetizzata la silente tragedia che sovente si costruisce entro ed attorno le antiche, or settecentesche mura, della città. La quale, come argutamente scrive Cecilia Marchese ne "La dea città", è "alchemica, sintesi perfetta dei quattro elementi che compongono le cose dell’universo in tutte le tradizioni magiche ed esoteriche del Mediterraneo": importante codesta interpretazione, da rammentare in specie riguardo l’antica storia civica, ove è noto che molte scelte e comportamenti (si pensi al leggendario ‘magus’ Eliodoro, come alla favola, non scevra di concretezza, del cavallo senza testa, ivi ricordate) affondano le radici nel mondo della autentica religiosità, non già dogmatica ma intrisa di ermetismo. Nel volume non manca un paragrafo dedicato al mare (nota di R.H.Clarke), nonché ai modi di dire, a cura del linguista Salvatore Camilleri: infine, una divagazione sul calcio nel ricordo del presidente della squadra locale, Angelo Massimino, e pagine sentite di come Catania può venire interpretata dai visitatori.
Helvétius ha scritto: "On ne vit que le temps qu’on aime", ed a noi pare che tale sentimento, tale atto di amore verso una città alle volte abbattuta, spesso oscura ma dalle infinite potenzialità che solo pochi artefici, magari nel secreto dei templi, riescono ad accendere come prometeica fiaccola, debba esser di molto rinfocolato dalle duecento ed otto pagine di "Catania nella memoria". Rimembranze senza il cui vissuto è solo la morte, ovvero l’oblìo di ogni Luce. Ma per Catania, "con le sue lastre di lava scure, le sue edicole tappezzate di giornali, i suoi cinematografi, le sue pasticcerie affollate, i suoi monumentali orinatoi sfarzosamente illuminati", scriveva in "Giovannino" con malinconica nostalgia l’indimenticato Ercole Patti, che "aveva un’aria alacre ed allegramente funebre", se non può che esservi ancora un futuro non avvolto dal nero manto delle Parche, esso deve necessariamente dipanarsi fra le mani di coloro che l’amano. I quali dimorano, immortalò in un verso cesareo Mario Rapisardi, altro figlio ed innamorato delle nostre contrade, "tra l’Etna ed il mare", i "grandi amici" che vegliano, silenti ed immortali, le soglie del sacrario.

FGio

venerdì 21 agosto 2009

Sant’Agata di mezz’agosto a Catania com’era…


Com’era bella un tempo, la festa di Sant’Agata di mezz’agosto! Noi catinensi la chiamavamo così, allorché era ancora ‘nostra’. E per ‘nostra’ intendiamo affermare una visione intimistica, quasi esclusiva, dell’uscita del busto reliquiario della Patrona cristiana della città, rammentandosi non solo l’anniversario del ritorno delle reliquie, il giorno 17 agosto del 1126 ad opera dei soldati bizantini Gisliberto e Goselmo, animati del resto non già da sola virtù ma da immortale ricordo (infatti sono sepolti nella cappella detta dei Re aragonesi, a destra di quella agatina, nel Duomo della città: pensate, due umili militi che dimorano accanto a’ Sovrani d’Aragona… et in pulvis reverterunt…!), resti mortali della Vergine traslati la notte dell’otto gennaio del 1040 dallo stratigò bizantino Giorgio Maniace venuto in Sicilia a combattere i mussulmani che la possedevano, ma anche lo scaturire delle feste popolari, le quali sin da quel secolo XII ebbero inizio in modo istituzionalizzato, stratificandosi pòscia nel noto cerimoniale del secolo XVI, più volte modificato sino ad oggi.
Com’era bella, si affermava, la tradizione del ritorno sulle onde del Mediterraneo, da Costantinopoli teatro delle gèsta di Eliodòro, a Catania, delle frànte ma –si afferma- incorrotte reliquie della ‘Santuzza’, come i catinensi la appellano: siccome Iside fu dèa navigera, ed in Apulejo (Metamorfosi) ne abbiamo autorevolissima ed affidabile testimonianza (egli fu suo sacerdote), vogliamo credere alla pia leggenda non senza ingegno intessuta da’ Vescovi cristiani dell’accorrere i catinensi annottando, in camicia bianca onde ricevere, già arrivata la nave con lo scrigno reliquiario nel castello di Aci ed ivi ricevuta dal benedettino Vescovo Maurizio, a festeggiare dopo ottantasei anni, il ritorno della fanciulla quattordicenne simbolo di incorrotta virtù, da quel momento dimorante nel recentemente costruito, e turrito, edifizio della Cattedrale. E poco cale se i sacerdoti issaci ebbero appunto la bianca veste, e le donne quella verde (colore alla Divina Madre consacrato): in commistione perfetta, il popolo sempre più intuitivo dei saccenti e dei manipolatori della Verità sa, e ben conosce, chi è la Magna Mater ed a chi deve rendere il devoto omaggio.
Agata dunque, il 17 agosto alla sera, in tra fuochi d’artifizio non invasivi, sino a pochi anni fa mostràvasi mesta quasi, senza pompa, solo nelle sue vesti semplici del busto reliquiario, aggirare l’elefante su cui sovrasta l’obelisco egizio, quindi in senso antiorario ritornare alle antiche origini, non prima di aver riveduto il sacro mare, per poi quasi subito rientrare. Una timida uscita, per i pochi rimasti in città, nella calura agostana.
Ahinoi, tutto vanisce, nella mèsse del consumismo. Oggidì la piazza del Duomo appare stracolma più di allogeni che di autoctoni, i quali del resto non tutti ma in parte, come avviene nel rimanente mòndo imbarbarito dalla massificazione cosmica, dimenticarono la circostanza di raccoglimento che tale festa dona, in misura molto minore di quella, ben più solenne e maestosa, dei giorni del martirio, nel febbraio di ogni anno, che vede il fercolo girare per la città; invasione di corpi consumanti aria, quella residua che rimane dall’aspirazione impietosa degli apparecchi di refrigerazione installati in quasi tutte le case (e che nel centro storico settecentesco di una città antica costituiscono autentico segno della diminuzione di ossigeno), ove esso non venga da parte delle politiche autorità antropizzato del tutto (ovvero chiuso senza appello, non in minima parte ma completamente, al traffico automobilistico, vera fonte mefitica del calore eccessivo); un diciassette agosto dunque non più alla Vergine catinense dedicato, ma al commercio più sfrenato, al consumismo e sopra tutto, al trionfo dell’egotismo oltre la solidarietà fraterna la quale proprio dalla Luce di quella fanciulla incorrotta viene versato, in ogni caso ed in ogni tempo, nei cuori di chi sa comprendere, oltre ogni distinzione di fede come di assenza di essa, di razza, di ceto sociale.
V’ha una scritta, sul portale a sinistra osservando la Cattedrale di Catania, in sigla che quasi nessuno rammenta: con motivazioni comprensibili, per coloro che ne han dònde. E’ "NOPAQVIE", ovvero "non provarti, o tu che varchi codesta soglia, ad offendere la patria di Agata, la civitas Catinensium, perché Costei è sicuramente vendicatrice delle offese ricevute". Se si notano le vicende degli ultimi amministratori politici della città, riguardo i guai giudiziarii e di salute, jeri ed oggi, si può dire che l’invocazione terrifica non è priva di valore. Anche dèssa è di origine precristiana, se proprio si vuol sceverare nelle antiche reliquie. Come Agata la bella, la Santa pura che naviga serena sul mare e che la tradizione religiosa (dallo storico reverendo Consoli a Padre Santo), vòlle segnalare qual giorno di nascita l’otto di settembre, del 238. Natività di Myriàm, appunto. Ave, Maris Stella. Anche se travolta dal triste modernismo delle màsse che più non ti consente di apparire come un tempo e ti dòna abiti inconsueti, ciò fa parte della ruota del Destino. Tornerai a risplendere, intemerata e dolce, nella intima povertà, nella quasi solitudine, di un tempo felice, ove fiorivano gli ibischi, senza che fòssero soffocati dal tànfo dei troppi, indegni profani.

martedì 7 luglio 2009

La poesia La bicicletta di Giovanni Pascoli letta da Francesco Giordano

Presentiamo una video lettura della poesia "La bicicletta", di Giovanni Pascoli, pubblicata nella raccolta celeberrima dei "Canti di Castelvecchio" (da "Poesie di Giovanni Pascoli", Mondadori, Milano 1940 2°ed.). In ricordo dell'immortale Poeta, di una visita alla casa avita in quel di Barga, anni fa, uno dei templi italici della Poesia, nonché omaggio al velocipede simbolo di assoluta Libertà.
La voce è di Francesco Giordano ; la fotografia risale al 1903, il medesimo anno della raccolta di liriche, scattata nel giardino della casa di Castelvecchio; l'accompagnamento musicale sullo sfondo è di Niccolò Paganini, "Le streghe", variazioni sul tema del balletto "Il noce di Benevento" di F.X.Sùssmayr (l'allievo di Mozart che ne completò il Requiem), per violino e pianoforte op. 8, del 1813; il violino dell'esecuzione è un Guarneri del Gesù appartenuto al Paganini.

lunedì 22 giugno 2009

La bella Emma e l'eroe Nelson a Catania. Un curioso episodio.

Gli anni dal 1799 al 1814 videro la Sicilia al centro della politica mediterranea dell'Europa e, per la ininterrotta guerra che gli stati del Continente capitanati dall'Inghilterra mantennero contro Napoleone Bonaparte e la Francia repubblicana ed imperiale, la nostra isola ebbe il privilegio di costituire non solamente l'indispensabile base delle operazioni navali contro l'Armata francese, ma anche beneficiò delle riforme economiche, politiche e sociali connesse. Il culmine di ciò si ebbe con la costituzione siciliana del 1812, concessa mercé il volere di S.M. Britannica ed imposta al riluttante Ferdinando, che per sdegno nominò vicario generale del Regno (il napoletano occupato dal Murat) il figlio Ferdinando. Ma questa situazione è diretta conseguenza dei due grandi combattimenti navali che diedero alla Home Fleet il predominio mondiale sulle acque mediterranee: ovvero la battaglia di Abukir (estate 1798) e quella di capo Trafalgar (ottobre 1805), dovute al genio militare dell'ammiraglio Horatio Nelson.
La figura fulgida di questo eroe indimenticabile, è indissolubile con quella della Sicilia, in quei giorni 'inglesizzata'. I marinai della flotta britannica infatti per ben due volte protessero la Sicilia e la famiglia Reale borbonica dalle invasioni dei ribelli giacobini e dell'esercito dell'Impero, costituendo il baluardo della libertà e della tolleranza civile, in anni di abbandono e di barbarie generalizzata. Dopo la grande vittoria colta nella rada egiziana dalla flotta del Nelson sulle navi napoleoniche, abbandonato malvolentieri il generale di là dalle piramidi, avendo avuto notizia "di alcuni scontri che essi chiamano grandi vittorie", l'ammiraglio fa ritorno a Napoli. Da lì protegge la ritirata della famiglia Reale a Palermo e, dopo la riconquista del regno nella primavera del 1799 ad opera delle truppe sanfediste del cardinale Ruffo e del presidio formidabile delle navi inglesi a Procida Ischia e Capri, riporta i sovrani sotto il Vesuvio, mentre il popolo festante intona la celeberrima melodia "Torna maggio".
Nominato in quell'agosto, tra il tripudio generale della popolazione che appare, dalle lettere dei contemporanei, esaltato sino al parossismo, duca del feudo di Bronte da re Ferdinando, Horatio Nelson ne va immediatamente fiero, non solamente per il significato del nome (il ciclope del Tuono) che si ricollega alla sua infermità -sin dal 1794, causa l'assedio di Calvi, è orbo dell'occhio destro: ed a Teneriffa nello stesso anno, perderà il braccio- , ma anche per l'alto grado del titolo (e per la rendita di tremila sterline del feudo), adeguato a quanto egli stesso si sarebbe aspettato dal suo governo, che invece per la magnifica vittoria dell'Oriente si degnò concedergli il non brillantissimo titolo di barone del Nilo e Visconte di Burnham Thorpe (il villaggio natale). Egli fu ed è nondimeno il più popolare condottiero che la Gran Bretagna abbia mai avuto. E tuttavia, più d'ogni cosa al mondo, il valoroso combattente che non ebbe fortuna nel focolare domestico, trovò la devota affezione, l'amore a tratti eccessivo ma prepotentemente sincero di Emma Hamilton, a quel tempo moglie dell'incaricato d'affari inglese a Napoli, la donna più bella di quegli anni. Così Volfango Goethe la descrisse nel 1787, ammantata del peplo ellenico : "... per vero dire ch'ella è propriamente bella di figura e di persona... il vecchio cavaliere... trova in quella giovane tutti i pregi dell'arte antica, il profilo delle monete siciliane e quello pure, io credo, dell'Apollo del Belvedere...". Se a tanta soave bellezza, alle doti in lei circonfuse del canto e della passione intrepida che con buona dose d'ingenuità metteva nel suo ruolo di tramite fra la Regina Maria Carolina ed il marito, quale indispensabile fonte di informazioni per il gabinetto di San Giacomo, si unisce la volontà del glorioso ammiraglio di desiderare, come egli le scrisse mentre bordeggiava le coste danesi (era il 1801) "la pace, ed allora partiremo per Bronte... in dodici ore avremo attraversato le acque... nulla potrebbe impedirmi di andarvi...", può ben comprendersi la passione impetuosa che li unì d'amore profondo ed immortale. Passione coronata dalla figlia Horatia, lungamente amata: Nelson volle legare entrambe "al Re ed al Paese" affidandole alle cure, poi non corrisposte, del governo britannico.
Questa la situazione in quei giorni, indispensabile premessa per la chiara comprensione di un curioso episodio occorso a Catania, dove sovente il Nelson con le sue navi (dall'agosto 1799 al gennajo 1800 più spesso, poiché esercitò le funzioni di Comandante in Capo della Home Fleet nel Mediterraneo) attraccava, ancorandole al largo delle scogliere dell'Armisi e della "porta di ferro", entrando nell'abitato per il piano della Statua. In quelle settimane egli si riforniva in città per alimentare l'assedio della Valletta, a Malta, ove resisteva una guarnigione francese, che avrebbe presto capitolato. Lo speziale Salvatore De Gaetani, della cui famiglia esiste ancora la farmacia (qualche isolato più in giù di allora), in via Vittorio Emanuele nel rione Civita, ebbe modo di curare una tipica forma di malanno dei marinai detta scorbuto, ricevendo le lodi dall'ammiraglio. Sembra anzi che questi donò del metallo di cannoni francesi, da cui il De Gaetani trasse un mortajo ancora esistente in farmacia. Ma pare leggenda, perché la data incisa nel bordo (all'incontrario) del manufatto è il 1842.
In una delle frequenti visite in città (narrano le cronache pettegole dell'epoca, in particolare quella dei Cristoadoro, i cui manoscritti sono custoditi dalla Biblioteca Regionale Universitaria della città etnea) Nelson e la Hamilton, accompagnati dal vecchio Sir William, furono ospiti nel palazzo dei baroni Massa principi di San Demetrio, il più sfarzoso dei cosiddetti "quattro canti" etnei (in parte rifatto dopo il bombardamento aereo del 1943). Nella corte dell'edificio, come era d'uso, s'ergeva un teatrino privato: e vi fu chi riferì che Emma ebbe ivi l'opportunità di esibirsi in una danza al suono di arpe elleniche , ed innanzi all'estasiato Nelson ed ai convenuti dell'aristocrazia rimase letteralmente senza veli, così da poterne osservare le morbide fattezze! Ciò, come si immagina, destò ulteriore chiacchiericcio per la già discussa relazione: la quale tuttavia si protrasse per la rimanente vita di Nelson.
Se infine egli non fosse caduto al servizio della Patria e dell'Europa a Trafalgar, i suoi stessi scritti ci permettono di affermare che avrebbe concluso serenamente i suoi giorni sotto il cielo poetico e stellato della ducéa alle falde dell'Etna, contemplando l'Orsa fra le braccia della bella Emma. Il destino decise però diversamente, ed il Tempio di San Paolo a Londra venera ognora colui che il poeta Giovanni Meli chiamò "anglu-sicanu eroi".




Nota: Questo articolo di Francesco Giordano è stato stampato, in edizione leggermente ridotta, a pagina 40 della rivista "La Provincia di Catania – organo ufficiale della Provincia regionale", anno XXI numero 2, febbraio 2003, con il titolo "La dolce vita catanese dell’Ammiraglio".

mercoledì 3 giugno 2009

Un gioiello della architettura settecentesca di Catania: il palazzo Fassari Pace

Il palazzo Fassari Pace può essere considerato come splendido esempio di architettura civile settecentesca, nella ricostruzione di Catania dopo il disastroso terremoto che totalmente la distrusse, l’undici gennaio del 1693. E’ la prima volta in assoluto che se ne descrive l’esistenza, in un percorso ideale di valorizzazione del patrimonio artistico delle città barocche di Sicilia e d’Italia. Ubicato nella parte alta di via Vittorio Emanuele, già strada del Corso reale, asse viario il più vetusto della Catania sin dall’antichità ellenica, il palazzo si apre su quest’ultima nella sua facciata ariosa e semplice di barocco classicheggiante, angolando tra le vie Santa Barbara e della Palma, rivolto a sud; al nord è costeggiato dalla via San Barnabà, da cui si accede per via della Palma; nel Settecento era nella parte interna ornato da un giardino, oggi scomparso. E’ accanto all’ex convento della Trinità, oggi sede del liceo scientifico Boggio Lera, impreziosito dalla omonima chiesa.
La sua costruzione si può far risalire con certezza al primo trentennio del XVIII secolo: tuttavia sin da prima del devastante terremoto e dalla eruzione lavica del 1669 che invase il perimetro urbano (ma non il luogo ove sorge il palazzo), erano ivi presenti, seppure il vecchio Corso aveva un tracciato non lineare ma leggermente sinuoso, abitazioni di fattura similare. Ciò può vedersi nella pianta di Catania pubblicata dal Cluverio (Sicilia antiqua, Leida) nel 1619. La presenza del severo e maestoso palazzo settecentesco, nei suoi due primi ordini, terrano con le botteghe, e piano nobile caratterizzato dalle cornici degli otto balconi che si affacciano nella pubblica via, con disegno rettangolare sovrastante, è rintracciabile nelle due piantine di riferimento, che lo vedono con esattezza delineato: quella di Giuseppe Orlando, stampata nel 1760, e quella (del medesimo periodo, poiché l’autore moriva nel 1762) che è inserita nel testo Lexicon topographicum siculum, dell’erudito abate Vito Maria Amico Statella. In tali disegni accurati degli edifizi della città, sorta con stile quasi militare per volontà del duca di Camastra Giuseppe Lanza, vicario generale del Regno per volere del Viceré de Uzeda, l’ingegnere militare Grunemberg ricalcò sostanzialmente gli schemi delle strade principali esistenti prima del sisma, la più importante delle quali, per la presenza del teatro greco romano e la salita verso i Benedettini nonché il collegamento verso il mare, è proprio via Vittorio Emanuele, si notano nitidamente i palazzi eretti e lo stato dei lavori all’epoca della stampa. Il palazzo Fassari Pace era allora stato costruito solo nella sua parte centrale: mancava il secondo piano, probabilmente concepito sin dal disegno originario,che sarà completato tra il XVIII ed il primo trentennio del XIX secolo: come attesta la pianta di Catania di Sebastiano Ittar, edita nel 1833. Pertanto la forma definitiva dell’edificio si può datare a quest’ultimo periodo. Le sopraelevazioni che si notano oltre il secondo piano sono opera del primo Novecento, con evidenti scopi commerciali. E’ da precisare altresì che l’abbassamento del livello delle strade di Catania, negli anni 1870-71 voluto dal governo nazionale con obiettivi eminentemente speculativi (perciò controversi e contestati all’epoca), ha modificato il disegno della facciata. Sia il portone centrale d’ingresso che quelli laterali di via della Palma e via Santa Barbara sono stati abbassati; i primi due rimangono tuttora sovrastati da finestroni ovali detti ad occhio di bue, l’ultimo ha un balconcino.
L’autore del palazzo può essere identificato, per lo stile e per le modalità di costruzione e per i materiali, nonché attraverso indizi raccolti in svariati documenti, in Francesco Battaglia, forse il più grande maestro costruttore della Catania settecentesca, architetto di Casa del Principe Ignazio Paternò Castello di Biscari nonché dei Benedettini. E’ anche possibile che l’opera sia in parte del figlio Antonino, rifinita altresì dal nipote Carmelo Battaglia Santangelo (dallo stile più classico: sua è la sistemazione del finestrone centrale della incompiuta facciata del Tempio di San Nicolò la Rena, ove lavorarono il cugino e lo zio): però i riscontri che avrebbero permesso di attribuirne con sicurezza l’autenticità furono purtroppo distrutti dall’incendio che devastò il Municipio, quindi l’Archivio Comunale, nel dicembre 1944. Al Battaglia si risale per molte ragioni, non ultima delle quali il ‘vederlo’ fisicamente all’opera non solo nella edificazione del complesso monastico dei Benedettini, ma anche per l’attiguo monastero della Trinità, nonché per ogni opera di architettura religiosa e civile dei dintorni che abbia maestà e tipologia, unitamente ai componenti della sua famiglia, il genero Stefano Ittar, i parenti Amato, i Biondo tagliapietre oriundi di Messina (Federico De Roberto, nella monografia del 1907 su Catania, lo chiama Francesco Battaglia Biondo).
Così la proprietà del palazzo è –sinché non si potranno effettuare approfondimenti attraverso documenti dal difficilissimo reperimento, qualora ancor vi siano- negli anni della edificazione, nebulosa: ma si può affermare che la committenza debba esser stata affatto nobiliare, di giurista o uomo di Chiesa, data anche la vicinanza e la similitudine plastica con il monastero delle suore benedettine della Trinità: nonché da deduzioni indirette avute consultando i regesti dell’Archivio di Stato di Catania, degli anni 1693-95.
Il nome che si attribuisce è quello degli ultimi proprietari dell’edificio unificato prima della divisione, i coniugi Pace (importatore di mercanzie varie in Catania) e Fassari, in specifico donna Irene, a capo nei primi del Novecento dell’Unione Femminile Catanese ed amica di Mario Rapisardi (che così le scriveva: "…non posso che lodare gli intenti pietosi di codesta istituzione ed augurarne pronti ed efficaci gli effetti… la bellezza della donna è uno dei più generosi spettacoli che la natura concede ai mortali…", 16 maggio 1909), la quale avendo perduto un figlio, si dedicò alla istruzione delle fanciulle.
La facciata del palazzo ha nel piano nobile otto balconi di stile classico sormontati nell’architrave da un rettangolo simbolico, forse in origine destinato ad essere decorato (solo uno di essi, al centro, ha degli stucchi floreali di stile Liberty), ariosi ma austeri come si addiceva al periodo, di cui solo i tre centrali –in una disposizione originale- sono racchiusi da unica ringhiera, rimanendo tre singoli verso ovest e due verso est: si rammenti che il piano terrano era nel Settecento quel che oggi si classifica per primo. Di notevole impatto scenico è il lunghissimo balcone del secondo piano, originalissima idea che può datarsi tra la fine del Settecento o primo Ottocento, per infoltire il numero degli spettatori alla festa più importante della città: infatti sino al 1926 da questo tratto di via Vittorio Emanuele, sino alla vicina ed allineata, nel piano detto della Consolazione o di San Cosimo, oggi piazza Machiavelli, chiesa di Sant’Agata alle Sciare (ove si svolgeva l’offerta votiva) saliva il fercolo di Sant’Agata, il giorno 4 di febbraio, nell’ambito del cosiddetto giro esterno. Fino al 1875, allorché lo Stato le fece sloggiare, le Benedettine della Trinità come gli Agostiniani più giù, erano allietati come i laici dal passaggio della processione agatina la quale toccava le dimora degli ordini ecclesiastici più importanti, ed i luoghi sacri.
Il palazzo Fassari Pace ha avuto, sempre nel piano nobile, una connessione interna delle stanze che lo compongono creando una ‘fuga’ scenica piuttosto singolare. Ciò sino agli anni Trenta del XX secolo, allorquando la proprietà lo divise in appartamenti, ‘tagliati’ in modo diverso e secondo discutibili criteri. Da allora l’edificio, dalle belle lesène di pietra calcarea come le cornici dei balconi, dalle paraste possenti degli angoli che svettano al sole del mattino e s’inondano dell’oro del tramonto, soffre di quella senescenza inevitabile, comune a quasi tutti gli edifici del Settecento catanese (si pensi a palazzo Reburdone, anche questo opera di Francesco Battaglia e specularmente affacciato sempre su via Vittorio Emanuele all’oriente angolando con piazza dei Martiri o piano della Statua, il quale ospita al suo interno sia uffici dell’Università, sia un modesto alberghetto affittacamere), non conservati nella loro interezza e in modo dubbio ammodernati. La sua presenza nondimeno ancor solenne nel contesto della antica strada del Corso, arricchisce il barocco catanese, di stile classico ed echeggiante spesso quello romano, donando nonostante il decadimento, quel profumo antico di segreta solennità.

martedì 12 maggio 2009

Il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi


Presentiamo al Lettore, nella linea tracciata da codesto blog, il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi, trascritto dal volume unico di "Poemi liriche e traduzioni" edito dal Sandron nel 1911 (edizioni dei "Poemetti" erano già apparse nel 1902 e nel 1908). In esso è sintetizzata la concezione etica e scientifica della poesia rapisardiana: nel passaggio dell’astro (la cometa detta di Halley fu visibile da noi nell’aprile 1910; l’attesa suscitò controverse aspettative) egli simboleggia la vindice Giustizia, contra le turpi nefandezze umane nonché, nel solco della filosofia lucreziana del cui capolavoro fu insigne traduttore, il dissolversi panteistico del Tutto nell’immenso oblìo. Non mancano le frecciate anticlericali, né il tono autobiografico: Antero è il poeta, ed Egle l’amatissima compagna Amelia, che con lui visse sino alla fine, di schiatta nobile. Il Riccò citato altri non è che il noto astronomo Annibale Riccò, collega ed amico del Rapisardi all’Università di Catania, il quale fondava, e dirigeva in quel tempo, l’osservatorio astronomico etnèo. L’istantanea fotografica ‘familiare’ che qui si allega, riproduce il Rapisardi e l’Amelia che legge, nel salotto della casa del Borgo, inizi del Novecento. In primo piano la famosa pelle di leopardo, che il Vate con eccentricità amava tenere nella stanza, la quale risulta dispersa, poiché non figura tra i cimeli (la tenda che si intravvede è ivi) serbati nella stanza-museo della biblioteca Civica nell’ex monastero benedettino.
(Nota di FGio)






La Cometa

I
A qual parte del cielo erano intèse,
o Riccò, le tue lènti, allor che al nostro
sguardo si fe’ l’orrendo astro palese?
E dov’era allor fiso il pensier vostro,
spiatori dei cieli, se inaspettato
raggiò sì presso a noi l’aereo mostro?
A Sirio opposto, a Orìon da lato
La chioma irta ei diffuse, e fu di strane
Apparenze ad un tratto il ciel turbato:
torbido fiammeggiò l’etereo Cane,
e di solfureo vel cinta offuscossi
del gigante Algebàr la spada immane;
bianco si fece Aldebaràn, che i rossi
crini mirando usurpar l’etra, a’ due
suoi compagni ristretto in mar calossi.
Come al sopravvenir d’occulta lue
Trema il vulgo mortale, e tutte a’ lesti
Piedi confida le speranze sue,
atterrito così per le celesti
regìoni ad un’ora il siderale
popol fuggire e impallidir vedresti.
Qual core allor fu il tuo, gregge mortale,
cui sapere e ragion tardi soccorre,
ma all’errore, al terror sì pronte hai l’ale?
Esce a’ lidi ansioso, a’ monti accorre,
e muto, intènto nel funereo raggio,
alle porte urge dell’aerea torre,
su la cui cima imperturbato il saggio
scruta dell’igneo drago il raro e il denso
e l’orbe informe e l’inegual viaggio;
e se dismaga il basso error, l’immenso
terror non vince delle scarse menti,
a cui più che ragion comanda il senso:
mirano spazìar per le silenti
aure il nemico, e arcani influssi e morbi
novi e stragi fraterne ecco imminenti.
E quant’ei più si appressa e di più torbi
Sguardi infetta le stelle, e più gli umani
Intelletti si fan trepidi ed orbi.
Di rosse spade, di serpenti strani
Munito il corpo mostruoso pende
Vasto e sanguigno per gl’impervj vani.
Oh spaventosi aspetti, oh notti orrende,
quando una pioggia di fulminee stelle
Vibra e’ dall’arco il nostro globo offende;
e ad ogni umano argomentar ribelle
altre vie s’apre, ed il mutevol crine
in coda allunga o in fulvi orbi convelle!
Non questo della terra è dunque il fine?
Non la minace profezia, che all’empie
Tracotanze dell’uom segna un confine,
per te, sterminatore angiol, s’adempie?


II
Come su le spettrali ombre d’un bosco
Pendulo su l’etnée balze, la luna
Roggia e grande campeggia all’aer fosco:
sorgon su dalla terra umida e bruna
vaporosi fantasmi, e rubiconde
l’ombre si fan che l’emisferio aduna;
apron gli antri le bocche atre e profonde,
e pavidi tremori e dètti strani
ricambiando si van l’aure e le fronde:
così tetro grandeggia a gli occhi umani
il dragon ruinoso, e i petti molli
di sogni inonda e di spaventi arcani.
Empj dètti, opre ree, proposti folli
Odon campi e città, dove che raro
Il popolo più erri e più s’affolli.
Ma chi fitto ha nel core il tarlo amaro
Del tardo ripentire, e chi del punto
Vano in che vive ha l’avvenir più caro;
chi in turpi fatti al duro secolo giunto
l’ora del gran Giudicio appressar vede,
pio per terrore e per viltà compunto,
dell’insolito altar gittasi al piede,
e al Dio, che già sprezzò, con disperati
pianti pietà per sé, pe’ suoi richiede,
Suona d’umili preci e d’ululati
La reggia e il casolar: suonan le meste
Vie d’un salmodìar mesto di frati.
Pur non poche vi sono alme rubeste,
che nel periglio estremamente audaci
a tutto osare, a tutto oprar son preste:
indi un pazzo sitir d’oro e di baci,
e ferali tripudi e nozze strane,
vendette orrende e generose paci.
Taccion le leggi, o son derise e vane:
tutti adegua il terrore, e ad una mensa
con la plebe il signor divide il pane;
cade vinta un dì l’opera immensa:
non trarre oro dal sangue osa il Giudeo,
non i solchi ad aprire il villan pensa.
Allor fu che felici al tempo reo
Si strinsero d’amore Egle ed Antero,
ella di regio sangue, ei di plebeo.
Ben ella avea nel verginal pensiero
Idoleggiato il fosco vate, a cui
L’arte abbellìa d’alte lusinghe il vero;
ma ostia rassegnata al cenno altrui
nello splendor d’una regal magione
giorni ella visse inonorati e bui;
dall’amor calpestata or la ragione,
lascia i palchi dorati, e in umil tetto,
nelle braccia di lui tutta si pone.
Oh inaspettato a lor dì benedetto,
che nel tremore universal beati
bocca unirono a bocca e petto a petto!
Tutti allor memorando i giorni ingrati,
le pugne vane e la fatal minaccia
che alla progenie rea vibrano i fati,
all’imminente mostro erto la faccia
illuminata da una fiera Idea,
trasumanato nelle amate braccia,
vaticinj ed amplessi egli mescea.


III
"Ascolta, o ciel, della mia voce il tuono;
porgi, o terra, al mio dir le orecchie intente:
odimi, o notte: la Giustizia io sono.
O morituri, a cui l’ora dolente
L’animo pervicace umilia e scema,
e voi che in traccia di piacer, la mente
travagliate errabondi all’ora estrema,
tutti ascoltate la funerea voce
che su voi piomba, e ognun ne pianga e frema.
Io da voi nata e da voi posta in croce,
ecco libero il braccio, e in voi dall’alto
zolfo avvento e bitume e fuoco atroce;
ecco le schiere mie lancio all’assalto
de’ valli tuoi, plebe gaudente, e mozzo
le tue moli di bronzo e di basalto.
Stolti! Assai non vi fu l’aver di sozzo
Bacio sconciato il mio virgineo seno,
e il mio corpo tuffato in luteo pozzo;
voi di sangue mi avete e di veleno
abbeverata, e delle case mie
fatto avete e di me traffico osceno.
A che valse che poche anime pie
Visser fide al mio culto? Un branco infame
Le schernì per le reggie e per le vie.
Ma così paga sia l’onesta fame
C’hanno di me l’austere anime, io tosto
Di voi, stolti, farò stoppa e letame!
Come della prigione in cui fu pòsto
Spezza fervido i cerchj, e dalle aperte
Doghe prorompe gorgogliando il mosto;
accorre il vinajuol tardi solerte
nel chiuso loco, e dall’afror percosso
in ebbrezza mortal giù piomba inerte:
così lo sdegno mio spumante e rosso
sfrenasi dal mio petto, e fulminato
primo ne andrà chi più si tien colosso!
O di neri avvoltoj stormo malnato,
che dell’umanità stolida a’ danni
fra l’aere di Gesù vegli in agguato;
o di folli signori e di tiranni
imbestiata genìa, che treschi e ruzzi
e a te gloria procacci, al mondo affanni;
geldra rea, che in mio nome i ferri aguzzi,
e leggi ordendo, anzi vendette, impregni
d’odio la vita, e le mie nari appuzzi;
stuol venale d’eroi, che i torvi ingegni
abbandonando a la ragion dell’armi,
ire, rapine e fratricidj insegni;
scribi che in prose abiette, in turpi carmi
schernite a prezzo Aristide e Catone
per votare a Tersite onor di marmi,
ecco, irrompe su voi la mia ragione,
e tra le mèssi all’opra altrui rapite
gira in cerchio ed avventa il suo tizzone!
Ecco, scendo tra voi, torme aborrite:
al passo mio, che nella notte romba,
tentennan come canne aule e meschite;
ecco, già scocca la siderea fromba,
e sossoprando le terracquee grotte
da l’uno a l’altro polo apre una tomba.
Scatena i flutti il mar simili a frotte
D’ippopòtami urlanti, e nel vorace
Gorgo le razze e i continenti inghiotte;
ma vinto anch’ei da la solar fornace,
fervendo sfuma; e tu per l’universa
vacuità cercando invan la pace,
fatta pomice, o terra, andrai dispersa!"

Mario Rapisardi

mercoledì 6 maggio 2009

Torni la Luce


Premettiamo di provare estremo fastidio trattando di codesti argomenti, che ci illudevamo di credere confinati nelle cronache della Historia Augusta, del basso Impero, nelle pagine più colorite di Tacito, nelle Satire di Giovenale, nelle storie bizantine di Procopio. Oggidì si travalica il segno. Per cui a coloro che son liberi e di buoni costumi è necessario, anche per la dignità di quel tricolore che si deve additare, nel senso dell'Unità italiana, ai propri figli, vergare parole dure e chiare. Non scritte. "A' megghiu parola", ha riportato il dottor Falcone nel suo libro, "è chidda cà non si dici": antico proverbio siculo.
Queste le straordinarie frasi dette, e riportate il 3 maggio, dalla signora Vernica Lario, nome artistico di Miriam Bartolini, consorte in via di separazione e poi divorzio (si sa che l'iter in Italia è lungo) del presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi: "Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… perché la ragazza minorenne la conosceva prima che compisse 18 anni: magari fosse sua figlia…". "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile". Tali affermazioni, ben più della smentita del presidente, trasmessa la sera del 5 maggio in diretta tv su Rai 1, hanno una valenza politica, sociale, se ci si permette Etica e psicologica, molto grave. Infatti la seconda di esse è stata massimamente ignorata dalle televisioni e dai giornali asserviti ai grandi gruppi finanziari ed industriali. In clima di notevole recessione sociale, non è possibile stendere il classico velo pietoso. Occorre indagare colla luce delle verità che provengono dal profondo, di ognuno di noi. Verità parziali per forza di cose; sfaccettate, impalpabili. Nessuno le possiede in toto.
Bisogna nondimeno dare atto a pochi ma coraggiosi, e famosi, colleghi giornalisti di tenere desta l'attenzione su codesto problema che, se si fosse presentato nelle proporzioni nelle quali è in qualunque altra Nazione d'Europa e delle Americhe, avrebbe come minimo provocato le dimissioni dell'accusato. Tra costoro, oltre il valente Michele Santoro, è bene rammentare il collega Marco Travaglio, il quale fra l'altro ha ricevuto qualche giorno fa il premio per la libertà di stampa dalla associazione Djv dei giornalisti tedeschi, ed in tale occasione ha dichiarato a Berlino che in Italia la libertà di stampa "esiste sulla carta, ma non molto sulla carta stampata e quasi per nulla sulla televisione", manifestando uno stato di fatto gravissimo per la democrazia, il quale tuttavolta trova le scaturigini nella anomala situazione nella quale la Nazione si trova. Forse, da noi non accadrà nulla. In ogni caso, non si potrà dire che siamo rimasti zitti.
Non esprimiamo commenti, solo un riferimento storico, privo di attinenza coi fatti odierni, epperò a nostro avviso utile onde far riflettere. Il 29 luglio del 1943, in piena tragedia nazionale, appare nel diario del generale Paolo Puntoni, ajutante di campo del Re Vittorio Emanuele III (il Duce era stato sostituito quattro giorni prima dal Maresciallo Pietro Badoglio), la seguente riflessione del Sovrano, confidata al suo collaboratore: "Per me, ha detto Sua Maestà, molta colpa è di quella donna. A sessant'anni non si possono commettere certe intemperanze! -Uscendo poi dal suo consueto riserbo, mi ha citato, ridendo, un proverbio napoletano che suona press'a poco così: Quando per amore si va in gloria, la capa di sopra perde 'a memoria" (pag. 149 del vol. "Parla Vittorio Emanuele III" di P.Puntoni, Bologna 1993). "Quella donna" era la Claretta Petacci, che seppe morire con coraggio, assassinata barbaramente, accanto all'uomo che amava; persino donna Rachele ha per lei parole di perdono e di companto, nel libro delle sue memorie.
In fine, rammentiamo le parole che Giuseppe Garibaldi,la cui adamantina coerenza ideale splende intemerata, rifiutando di sedere in Parlamento nel 1880, scriveva a modo di testamento ai suoi seguaci: "Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non quella miserabile all'interno ed umiliata all'esterno, ed in preda alla parte peggiore della Nazione". Vi sono, lo crediamo fermamente, in Italia uomini d'onore e d'onestà i quali possono affermare col personale esempio, quel che disse il selvaggio nella volterriana Storia di Jennì: "Il mio Dio è là-, e mostrò il cielo; -la mia legge è qui dentro, e si mise la mano sul cuore", senza circonlocuzioni dogmatiche o barocche. Per tali motivi, purificate le acque dalla lutulenza, tornerà anche nella Patria nostra, la Luce.