mercoledì 23 dicembre 2009

Sul presepe esposto dall'Associazione Artisti e Creativi a Catania, Centro Culturale Concordia


Se la materia dònde son composte le feste natalizie, si concreta come cristalli di ròcca, in appariscenti lustrini e tradizionali addobbi, le vesti della superba invenzione francescana del Presepe, hanno particolare valenza, come un pìcco sporgente dal tranquillo mare. Eppure anche in questo costruire, si può essere dirompenti nel silenzio assordante dell'immagine: è ciò che Graziana Scalisi, Giorgio Russello ed Ezio Scandurra han fatto, nella loro originale esposizione interpretativa del presepe, allestita in questi giorni al Centro Culturale Concordia -in via Plaja 43 a Catania- in occasione della mostra di presepi di varia provenienza, patrocinata dall'Assessorato alla Cultura del Comune. E' l'esordio ufficiale, come ha dichiarato la scrittrice Vera Ambra che del sodalizio è animatrice, della Associazione Artisti e Creativi. Apparentemente manierata la forma, assaj originale la sostanza. C'è, per chi vuol vederla, quella "cornamusa del Natal" cantata in celebri versi dal Vate italico Mario Rapisardi; v'ha nondimeno un quid rivoluzionario, nel televisore zèppo di telefonini cellulari, in forme ovoidali che ricodan feti e forse son cervelli, in marionette mute ma dall'ugola possente, appese a fili visibilissimi al muro; v'ha da narrare molto quella lumaca enorme, il cui guscio è composto da fogli di giornale (sì, proprio le nostre parole che amiamo vedere ancor stampate nero su bianco mediate da inchiostro e carta: osservate quanto valore hanno, a che fine giungono...), assisa in modo eloquente nell'angolo. Bisogna guardare oltre le forme, ed i nostri artisti lo fanno, forse in modo troppo esplicito: e però bisogna dar loro atto di tenere diritta la barra, come nocchieri indomiti, verso la mèta intravveduta oltre le erculee colonne.
Quelle marionette, cercano le nuvole: proprio il clima natalizio, che sovente indulge allo spleen poetico, può essere spesso, forse in modo massimamente plastico che la pur nobilissima e non negoziabile culla di Greccio, intravveduto leggendo artisticamente l'esposizione di Graziana Scalisi, Giorgio Russello ed Ezio Scandurra, fra i cirri dell'incipiente tramonto. Lo capì un poeta maledetto come Pasolini che, regista, suggerisce al Principe Totò De Curtis, vestito da Jago e gettato da un curioso spazzaturajo Modugno nell'immondizia: "Guarda, le nuvole... Struggente bellezza del Creato...". Così ad uno straniero che dichiarava di non amare nè la famiglia, nè la patria, nè Dio, nè la bellezza, Baudelaire (in uno degli straordinari poemetti in prosa), fa dire: "Eh! ma allora cosa ami, straordinario straniero? -Amo le nuvole... le nuvole che vanno... laggiù... laggiù... le meravigliose nuvole!"
F.Gio

martedì 15 dicembre 2009

L'altarino di Sant'Agata in via della Palma a Catania




Sino agli anni Venti del secolo XX, la processione del fercolo di Sant'Agata in Catania, oggidì conosciuta in tutto il mondo attraverso i mezzi di comunicazione, ma già in passato celebre per fasto e maestosità, percorreva via Vittorio Emanuele, sino al tempio detto di S.Agata 'alle sciare', a nord dell'odierna piazza Machiavelli, ove si eresse tal luogo di culto a memoria dell'immagine della Santa protettrice dela città, ivi trovata durante l'invasione delle lave del 1669 nel territorio civico. Nella salita -la strada che fu detta reale, ai tempi borboniani, procede in leggero declivio dal Municipio verso ovest- , il fercolo si arrestava all'angolo còlla via della Palma: il motivo è la presenza di un altarino che racchiude una immagine della 'Santuzza', poco distante dall'incrocio.
La processione, da circa settanta anni, prosegue per altre vie, ma l'altarino è ancora lì, tra il civico 48 ed il 50 di via della Palma, accanto al cortile chiamato 'di Agatina', non a caso. La storia di codesta edicola sacra è interessante e poco nota, sebbene i catanesi autentici che ivi transitano lo osservino con affetto. Bisogna innanzi tutto precisare che la via della Palma, la quale si percorre 'a pinnìnu', come si afferma in lingua sicula, ovvero in discesa da nord a sud, intersecando via Vittorio Emanuele, via Pozzo Mulino sino a via Garibaldi (ove angola col tempio di S.Maria della Palma, adesso adibito a sede teatrale), è tra le strade più antiche della topografia di Catania. Essa è già presente nella pianta del XVI secolo della città disegnata dal Braun, ove si nota una immensa palma che sovrastava le abitazioni circostanti, dònde il suo nome.
L'altarino di Sant'Agata nasce evidentemente per intenzione del vicinato, a puro scopo devozionale, nel XIX secolo (se non prima: non si dispone di testimonianza anteriore), ma rovina, come alcune abitazioni vicine, per la particolare conformazione della strada, durante il terremoto di Messina del 1908 che, sebbene in misura lieve, data la sua potenza, apportò alcuni danni anche in Catania. La spiegazione che infatti si legge nel marmo, sotto l'inferriata che protegge una immagine a stampa della Vergine catinense (di nessun valore artistico invero: mentre sconosciamo l'originale icona) è la seguente: "W S.Agata. S.Agata vergine e martire - a grata e perenne memoria - per la liberazione del terremoto - del 28 dicembre 1908 - il vicinato devoto ristorò". E' evidente, in codesta invocazione protettiva, il ricordo mai spentosi nelle generazioni di catanesi, dei sismi che negli ultimi secoli distrussero o danneggiarono gravemente la città: nel 1818, nel 1783 e, tremendo e distruttivo in assoluto, quello del 1693 che lasciò solo rovine, per cui l'urbanistica di Catania è affatto settecentesca. Dopo quell'evento spaventoso, mutàronsi persino i nomi di alcune strade: via della Palma invece, quasi come mònito di indistruttibilità, rimase appellata nel medesimo modo. Evidentemente la protezione di Sant'Agata per questa via ed i suoi abitanti è particolarmente efficace. Ancora oggi, nei giorni di febbrajo e di mezz'agosto, festività agatine, molti devoti depongono ceri votivi inanzi alla sacra effigie, che documenta un culto quasi bimillenario(se non si computa il precedente isiaco, sul cui tronco fervidissimo quello della Vergine Agata s'innestò felicemente), che unisce in appassionato amore l'intiera comunità dei catanesi, in patria e nel mondo.
FGio

(fotografie dell'Autore: l'altarino illuminato a festa, 4 febbrajo 2009)
testo rilasciato sotto cc-by-sa / GFDL

mercoledì 9 dicembre 2009

Silenzio assordante per Francesco, Patrono d'Italia


Settanta anni fa Pio XII lo proclamò protettore d’Italia


Silenzio assordante per Francesco, patrono della nostra Nazione


Persino Benedetto XVI, nel giorno della sua festa, "dimentica" di ricordarne le virtù – Il grande messaggio della povertà che l’umile frate ha lasciato, validissimo oggi e domani -



E’ illuminante la constatazione di quanto la nostra bella Patria, mentre è stata gloriosamente beneficata nel passato da reggitori che l’amarono con assoluta evidenza, vèrsa negli ultimi tempi nella condizione di carenza diremmo quasi affettiva, da cui financo i massimi esponenti non si esimono. E’ il caso di San Francesco, il Poverello di Assisi elevato da subito agli altari, di cui quest’anno si celebra il settantesimo della sua proclamazione a Patrono primario, unitamente a Caterina da Siena, d’Italia. Nel giugno del 1939 l’illustre principe e Pontefice Eugenio Pacelli, da tre mesi incoronato Pio XII, nel suo primo atto magisteriale vòlle concretamente, e di ‘motu proprio’, con la formula del ‘breve’, donare alla Nazione italiana, ai fini di intensificarne la devozione in particolare –come afferma il documento, del 18 giugno- "nelle difficoltà dei tempi che da ogni parte premono..", verso il venerato padre dell’Umiltà e della perfezione, colui che solo fu degno di essere paragonato al Cristo degli Evangeli. "Difatti S. Francesco, poverello ed umile, vera immagine di Gesù Cristo, diede insuperabili esempi di vita evangelica ai cittadini di quella sua tanto turbolenta età e ad essi anzi con la costituzione del suo triplice ordine, aprì nuove vie e diede maggiori agevolezze per la correzione dei pubblici e privati costumi e per un più retto senso dei principi della vita cattolica", scrive ivi Papa Pacelli, con meditato pensiero. Quest’anno la festa del Santo si svolse come sempre in Assisi nella basilica ove egli riposa, mentre la Camera dei Deputati celebrò, con una cerimonia nella sala ‘della lupa’, l’avvenimento: epperò la suprema autorità della Chiesa, ossia il Papa Benedetto XVI, persona vigile ad ogni sommovimento spirituale dell’ecumène da lui guidata e fine teologo, nel giorno, 4 ottobre domenica, della festa del Santo, non solo non cennò minimamente alla sua figura, e neppure al settantesimo dalla proclamazione, ma si ricordò perfino di avvenimenti che crediamo minori (come la giornata per l’abbattimento delle barriere architettoniche), mentre ignorò totalmente, caso che si crede sino ad oggi unico nella storia dei Pontefici romani, di anche solo fugacemente accennare alla figura dell’umile poverello fondatore di uno degli Ordini più prestigiosi della cattolicità (ognuno può verificare, leggendo i comunicati della sala stampa della Santa Sede, nel sito Internet).
E’ un atteggiamento quantomeno singolare, considerata la grande devozione che suoi predecessori come Giovanni XXIII, il quale era pure terziario, ma anche Giovanni Paolo II, hanno avuto per Francesco. Segnale di qualcosa che in assordante silenzio si vuole comunicare a qualcuno? Non è necessario sempre svolgere considerazioni dietrologiche, gli è che tale comportamento da parte di Joseph Ratzinger, uomo assolutamente intelligente ed attentissimo alle sfumature, merita di essere attentamente compreso e valutato. E tuttavolta, testimonia un fatto che appare, nella sua triste evidenza, ogni giorno più incontrovertibile: l’allontanamento della Chiesa che si dice fondata da Gesù stesso attraverso Pietro, dagli ideali evangelici di povertà ed umiltà, nel XIII secolo perfettamente incarnati da Francesco. "Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro: non potete servire a Dio e a Mammona" (Mt.6,24). E’ evidente che, a parte le laudevoli eccezioni, i vertici e le varie comunità della Chiesa cattolica han fatto la loro scelta, la quale sempre più appare antievangelica; ciò addolora, ma non si può non constatarne la fondatezza, di là dalle intenzioni, dalle parole. Una simile omissione è la più eloquente testimonianza, nonché l’evidente silenzio che da tutti i pulpiti è seguito, senza bisogno di ulteriori commenti.
"Fin dalla conversione", scrive la ‘Leggenda perugina’, "Francesco con l’aiuto del Signore fondò sé stesso e la sua casa, vale a dire l’Ordine, da sapiente architetto, sopra solida roccia, cioè sopra la massima umiltà e povertà del figlio di Dio… senza nulla voler possedere sotto il cielo all’infuori della santa povertà…". Tra gli studiosi che negli ultimi anni hanno prescelto l’analisi adeguata ai tempi moderni del "più Santo fra gli Italiani, del più italiano dei Santi", come affermò Pio XII, è Leonardo Boff, già sacerdote francescano, il quale nel suo libro "Francesco d’Assisi, una alternativa umana e cristiana", scrive: "Tutti i maestri di spirito vissero e predicarono una vita di povertà come forma ascetica per liberare lo spirito dall’istinto del potere e dall’attaccamento al godimento dei beni materiali. Questa virtù non è specificatamente cristiana. Essa si impone come esigenza di ogni ascesa spirituale e di ogni autentica creatività in qualsiasi campo della dimensione ‘creativa’ dell’uomo. La povertà, come virtù, si colloca tra il disprezzo e l’amore dei beni. Si tratta del loro uso moderato e sobrio, uso questo che può variare secondo i luoghi e le culture, il cui significato tuttavia resta sempre lo stesso: la libertà dello spirito per poter realizzare le opere proprie dello spirito che sono la libertà, la generosità, la preghiera, la creazione culturale. Povertà-ascesi significa saggezza della vita. L’opposto di questa forma di povertà è la prodigalità e lo sperpero irresponsabile. Fare una scelta per la povertà, in questa accezione, significa… scegliere una vita senza lusso ed anticonsumistica contro una società della produzione per la produzione e del consumo per il consumo" (pag.95 ed.it. 1981). Rarissimamente codeste parole, dette da un uomo di Chiesa –poiché si è sacerdoti in eterno- hanno a nostro avviso il chiaro potere di squarciare il velo della ipocrisia, della menzogna, della fraudolenza che si accatasta sugli animi e sui corpi di ciascuno di noi, e massime su coloro che per investitura hanno avuto il compito di guide, di pastori, di reggitori dei popoli e di comunità. Parafrasando John Kennedy, ci si consenta di immaginare un sogno: se un pensatore raffinato, un uomo del genere di Leonardo Boff disposto ad applicare quel che abbiamo letto, fòsse investito della tiara papale, quale rinnovellamento per la comunità cattolica si potrebbe intravedere… Ma forse ciò è già accaduto, volando col pensiero a Papa Luciani (unico Papa ad aver scelto per mòtto la parola francescana ‘humiltas’), benché solo per pochi, trentatré, giorni…
"E così si adagiò ignuda sopra la nuda terra. Chiese inoltre un guanciale per il suo capo, e quelli subito portarono una pietra e la posero sotto il capo di lei": è la Povertà che incontra i figli di Francesco, i frati, nello scritto noto come "Sacrum commercium". Inutile nascondersi dietro làcere vestigia, oltre muri di fango: se il modello non scaturisce dal cuore del singolo, come fu per il Santo che chiedeva una, due, tre pietre, nudo e lacero, per la ricostruzione del Tempio di San Damiano, non avrà seguito lo sforzo riformatore, rivoluzionario quasi, che deve portare alla radicale modifica della società moderna. Sì, avrebbe effetti assoluti osservare un Pontefice, come Giovanni XXIII cominciò a fare, dormire con guanciale la pietra santa della Povertà: epperò ciascuno di noi, spogliandosi degli orpelli e del veleno del modernismo e del consumismo capitalistico, tornando a vivere secondo dimensioni sociali e comunitarie, dovrebbe non solo amare, ma dimorare lungamente su quella pietra. Sentirne il freddo gelido, percepirne la durezza. Ed alfine, constatarne l’ardente, inestinguibile fuoco.


Barone di Sealand


(pubblicato su Sicilia Sera n° 323 del 6 dicembre 2009)