martedì 12 maggio 2009

Il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi


Presentiamo al Lettore, nella linea tracciata da codesto blog, il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi, trascritto dal volume unico di "Poemi liriche e traduzioni" edito dal Sandron nel 1911 (edizioni dei "Poemetti" erano già apparse nel 1902 e nel 1908). In esso è sintetizzata la concezione etica e scientifica della poesia rapisardiana: nel passaggio dell’astro (la cometa detta di Halley fu visibile da noi nell’aprile 1910; l’attesa suscitò controverse aspettative) egli simboleggia la vindice Giustizia, contra le turpi nefandezze umane nonché, nel solco della filosofia lucreziana del cui capolavoro fu insigne traduttore, il dissolversi panteistico del Tutto nell’immenso oblìo. Non mancano le frecciate anticlericali, né il tono autobiografico: Antero è il poeta, ed Egle l’amatissima compagna Amelia, che con lui visse sino alla fine, di schiatta nobile. Il Riccò citato altri non è che il noto astronomo Annibale Riccò, collega ed amico del Rapisardi all’Università di Catania, il quale fondava, e dirigeva in quel tempo, l’osservatorio astronomico etnèo. L’istantanea fotografica ‘familiare’ che qui si allega, riproduce il Rapisardi e l’Amelia che legge, nel salotto della casa del Borgo, inizi del Novecento. In primo piano la famosa pelle di leopardo, che il Vate con eccentricità amava tenere nella stanza, la quale risulta dispersa, poiché non figura tra i cimeli (la tenda che si intravvede è ivi) serbati nella stanza-museo della biblioteca Civica nell’ex monastero benedettino.
(Nota di FGio)






La Cometa

I
A qual parte del cielo erano intèse,
o Riccò, le tue lènti, allor che al nostro
sguardo si fe’ l’orrendo astro palese?
E dov’era allor fiso il pensier vostro,
spiatori dei cieli, se inaspettato
raggiò sì presso a noi l’aereo mostro?
A Sirio opposto, a Orìon da lato
La chioma irta ei diffuse, e fu di strane
Apparenze ad un tratto il ciel turbato:
torbido fiammeggiò l’etereo Cane,
e di solfureo vel cinta offuscossi
del gigante Algebàr la spada immane;
bianco si fece Aldebaràn, che i rossi
crini mirando usurpar l’etra, a’ due
suoi compagni ristretto in mar calossi.
Come al sopravvenir d’occulta lue
Trema il vulgo mortale, e tutte a’ lesti
Piedi confida le speranze sue,
atterrito così per le celesti
regìoni ad un’ora il siderale
popol fuggire e impallidir vedresti.
Qual core allor fu il tuo, gregge mortale,
cui sapere e ragion tardi soccorre,
ma all’errore, al terror sì pronte hai l’ale?
Esce a’ lidi ansioso, a’ monti accorre,
e muto, intènto nel funereo raggio,
alle porte urge dell’aerea torre,
su la cui cima imperturbato il saggio
scruta dell’igneo drago il raro e il denso
e l’orbe informe e l’inegual viaggio;
e se dismaga il basso error, l’immenso
terror non vince delle scarse menti,
a cui più che ragion comanda il senso:
mirano spazìar per le silenti
aure il nemico, e arcani influssi e morbi
novi e stragi fraterne ecco imminenti.
E quant’ei più si appressa e di più torbi
Sguardi infetta le stelle, e più gli umani
Intelletti si fan trepidi ed orbi.
Di rosse spade, di serpenti strani
Munito il corpo mostruoso pende
Vasto e sanguigno per gl’impervj vani.
Oh spaventosi aspetti, oh notti orrende,
quando una pioggia di fulminee stelle
Vibra e’ dall’arco il nostro globo offende;
e ad ogni umano argomentar ribelle
altre vie s’apre, ed il mutevol crine
in coda allunga o in fulvi orbi convelle!
Non questo della terra è dunque il fine?
Non la minace profezia, che all’empie
Tracotanze dell’uom segna un confine,
per te, sterminatore angiol, s’adempie?


II
Come su le spettrali ombre d’un bosco
Pendulo su l’etnée balze, la luna
Roggia e grande campeggia all’aer fosco:
sorgon su dalla terra umida e bruna
vaporosi fantasmi, e rubiconde
l’ombre si fan che l’emisferio aduna;
apron gli antri le bocche atre e profonde,
e pavidi tremori e dètti strani
ricambiando si van l’aure e le fronde:
così tetro grandeggia a gli occhi umani
il dragon ruinoso, e i petti molli
di sogni inonda e di spaventi arcani.
Empj dètti, opre ree, proposti folli
Odon campi e città, dove che raro
Il popolo più erri e più s’affolli.
Ma chi fitto ha nel core il tarlo amaro
Del tardo ripentire, e chi del punto
Vano in che vive ha l’avvenir più caro;
chi in turpi fatti al duro secolo giunto
l’ora del gran Giudicio appressar vede,
pio per terrore e per viltà compunto,
dell’insolito altar gittasi al piede,
e al Dio, che già sprezzò, con disperati
pianti pietà per sé, pe’ suoi richiede,
Suona d’umili preci e d’ululati
La reggia e il casolar: suonan le meste
Vie d’un salmodìar mesto di frati.
Pur non poche vi sono alme rubeste,
che nel periglio estremamente audaci
a tutto osare, a tutto oprar son preste:
indi un pazzo sitir d’oro e di baci,
e ferali tripudi e nozze strane,
vendette orrende e generose paci.
Taccion le leggi, o son derise e vane:
tutti adegua il terrore, e ad una mensa
con la plebe il signor divide il pane;
cade vinta un dì l’opera immensa:
non trarre oro dal sangue osa il Giudeo,
non i solchi ad aprire il villan pensa.
Allor fu che felici al tempo reo
Si strinsero d’amore Egle ed Antero,
ella di regio sangue, ei di plebeo.
Ben ella avea nel verginal pensiero
Idoleggiato il fosco vate, a cui
L’arte abbellìa d’alte lusinghe il vero;
ma ostia rassegnata al cenno altrui
nello splendor d’una regal magione
giorni ella visse inonorati e bui;
dall’amor calpestata or la ragione,
lascia i palchi dorati, e in umil tetto,
nelle braccia di lui tutta si pone.
Oh inaspettato a lor dì benedetto,
che nel tremore universal beati
bocca unirono a bocca e petto a petto!
Tutti allor memorando i giorni ingrati,
le pugne vane e la fatal minaccia
che alla progenie rea vibrano i fati,
all’imminente mostro erto la faccia
illuminata da una fiera Idea,
trasumanato nelle amate braccia,
vaticinj ed amplessi egli mescea.


III
"Ascolta, o ciel, della mia voce il tuono;
porgi, o terra, al mio dir le orecchie intente:
odimi, o notte: la Giustizia io sono.
O morituri, a cui l’ora dolente
L’animo pervicace umilia e scema,
e voi che in traccia di piacer, la mente
travagliate errabondi all’ora estrema,
tutti ascoltate la funerea voce
che su voi piomba, e ognun ne pianga e frema.
Io da voi nata e da voi posta in croce,
ecco libero il braccio, e in voi dall’alto
zolfo avvento e bitume e fuoco atroce;
ecco le schiere mie lancio all’assalto
de’ valli tuoi, plebe gaudente, e mozzo
le tue moli di bronzo e di basalto.
Stolti! Assai non vi fu l’aver di sozzo
Bacio sconciato il mio virgineo seno,
e il mio corpo tuffato in luteo pozzo;
voi di sangue mi avete e di veleno
abbeverata, e delle case mie
fatto avete e di me traffico osceno.
A che valse che poche anime pie
Visser fide al mio culto? Un branco infame
Le schernì per le reggie e per le vie.
Ma così paga sia l’onesta fame
C’hanno di me l’austere anime, io tosto
Di voi, stolti, farò stoppa e letame!
Come della prigione in cui fu pòsto
Spezza fervido i cerchj, e dalle aperte
Doghe prorompe gorgogliando il mosto;
accorre il vinajuol tardi solerte
nel chiuso loco, e dall’afror percosso
in ebbrezza mortal giù piomba inerte:
così lo sdegno mio spumante e rosso
sfrenasi dal mio petto, e fulminato
primo ne andrà chi più si tien colosso!
O di neri avvoltoj stormo malnato,
che dell’umanità stolida a’ danni
fra l’aere di Gesù vegli in agguato;
o di folli signori e di tiranni
imbestiata genìa, che treschi e ruzzi
e a te gloria procacci, al mondo affanni;
geldra rea, che in mio nome i ferri aguzzi,
e leggi ordendo, anzi vendette, impregni
d’odio la vita, e le mie nari appuzzi;
stuol venale d’eroi, che i torvi ingegni
abbandonando a la ragion dell’armi,
ire, rapine e fratricidj insegni;
scribi che in prose abiette, in turpi carmi
schernite a prezzo Aristide e Catone
per votare a Tersite onor di marmi,
ecco, irrompe su voi la mia ragione,
e tra le mèssi all’opra altrui rapite
gira in cerchio ed avventa il suo tizzone!
Ecco, scendo tra voi, torme aborrite:
al passo mio, che nella notte romba,
tentennan come canne aule e meschite;
ecco, già scocca la siderea fromba,
e sossoprando le terracquee grotte
da l’uno a l’altro polo apre una tomba.
Scatena i flutti il mar simili a frotte
D’ippopòtami urlanti, e nel vorace
Gorgo le razze e i continenti inghiotte;
ma vinto anch’ei da la solar fornace,
fervendo sfuma; e tu per l’universa
vacuità cercando invan la pace,
fatta pomice, o terra, andrai dispersa!"

Mario Rapisardi

mercoledì 6 maggio 2009

Torni la Luce


Premettiamo di provare estremo fastidio trattando di codesti argomenti, che ci illudevamo di credere confinati nelle cronache della Historia Augusta, del basso Impero, nelle pagine più colorite di Tacito, nelle Satire di Giovenale, nelle storie bizantine di Procopio. Oggidì si travalica il segno. Per cui a coloro che son liberi e di buoni costumi è necessario, anche per la dignità di quel tricolore che si deve additare, nel senso dell'Unità italiana, ai propri figli, vergare parole dure e chiare. Non scritte. "A' megghiu parola", ha riportato il dottor Falcone nel suo libro, "è chidda cà non si dici": antico proverbio siculo.
Queste le straordinarie frasi dette, e riportate il 3 maggio, dalla signora Vernica Lario, nome artistico di Miriam Bartolini, consorte in via di separazione e poi divorzio (si sa che l'iter in Italia è lungo) del presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi: "Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… perché la ragazza minorenne la conosceva prima che compisse 18 anni: magari fosse sua figlia…". "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile". Tali affermazioni, ben più della smentita del presidente, trasmessa la sera del 5 maggio in diretta tv su Rai 1, hanno una valenza politica, sociale, se ci si permette Etica e psicologica, molto grave. Infatti la seconda di esse è stata massimamente ignorata dalle televisioni e dai giornali asserviti ai grandi gruppi finanziari ed industriali. In clima di notevole recessione sociale, non è possibile stendere il classico velo pietoso. Occorre indagare colla luce delle verità che provengono dal profondo, di ognuno di noi. Verità parziali per forza di cose; sfaccettate, impalpabili. Nessuno le possiede in toto.
Bisogna nondimeno dare atto a pochi ma coraggiosi, e famosi, colleghi giornalisti di tenere desta l'attenzione su codesto problema che, se si fosse presentato nelle proporzioni nelle quali è in qualunque altra Nazione d'Europa e delle Americhe, avrebbe come minimo provocato le dimissioni dell'accusato. Tra costoro, oltre il valente Michele Santoro, è bene rammentare il collega Marco Travaglio, il quale fra l'altro ha ricevuto qualche giorno fa il premio per la libertà di stampa dalla associazione Djv dei giornalisti tedeschi, ed in tale occasione ha dichiarato a Berlino che in Italia la libertà di stampa "esiste sulla carta, ma non molto sulla carta stampata e quasi per nulla sulla televisione", manifestando uno stato di fatto gravissimo per la democrazia, il quale tuttavolta trova le scaturigini nella anomala situazione nella quale la Nazione si trova. Forse, da noi non accadrà nulla. In ogni caso, non si potrà dire che siamo rimasti zitti.
Non esprimiamo commenti, solo un riferimento storico, privo di attinenza coi fatti odierni, epperò a nostro avviso utile onde far riflettere. Il 29 luglio del 1943, in piena tragedia nazionale, appare nel diario del generale Paolo Puntoni, ajutante di campo del Re Vittorio Emanuele III (il Duce era stato sostituito quattro giorni prima dal Maresciallo Pietro Badoglio), la seguente riflessione del Sovrano, confidata al suo collaboratore: "Per me, ha detto Sua Maestà, molta colpa è di quella donna. A sessant'anni non si possono commettere certe intemperanze! -Uscendo poi dal suo consueto riserbo, mi ha citato, ridendo, un proverbio napoletano che suona press'a poco così: Quando per amore si va in gloria, la capa di sopra perde 'a memoria" (pag. 149 del vol. "Parla Vittorio Emanuele III" di P.Puntoni, Bologna 1993). "Quella donna" era la Claretta Petacci, che seppe morire con coraggio, assassinata barbaramente, accanto all'uomo che amava; persino donna Rachele ha per lei parole di perdono e di companto, nel libro delle sue memorie.
In fine, rammentiamo le parole che Giuseppe Garibaldi,la cui adamantina coerenza ideale splende intemerata, rifiutando di sedere in Parlamento nel 1880, scriveva a modo di testamento ai suoi seguaci: "Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non quella miserabile all'interno ed umiliata all'esterno, ed in preda alla parte peggiore della Nazione". Vi sono, lo crediamo fermamente, in Italia uomini d'onore e d'onestà i quali possono affermare col personale esempio, quel che disse il selvaggio nella volterriana Storia di Jennì: "Il mio Dio è là-, e mostrò il cielo; -la mia legge è qui dentro, e si mise la mano sul cuore", senza circonlocuzioni dogmatiche o barocche. Per tali motivi, purificate le acque dalla lutulenza, tornerà anche nella Patria nostra, la Luce.