mercoledì 23 dicembre 2009

Sul presepe esposto dall'Associazione Artisti e Creativi a Catania, Centro Culturale Concordia


Se la materia dònde son composte le feste natalizie, si concreta come cristalli di ròcca, in appariscenti lustrini e tradizionali addobbi, le vesti della superba invenzione francescana del Presepe, hanno particolare valenza, come un pìcco sporgente dal tranquillo mare. Eppure anche in questo costruire, si può essere dirompenti nel silenzio assordante dell'immagine: è ciò che Graziana Scalisi, Giorgio Russello ed Ezio Scandurra han fatto, nella loro originale esposizione interpretativa del presepe, allestita in questi giorni al Centro Culturale Concordia -in via Plaja 43 a Catania- in occasione della mostra di presepi di varia provenienza, patrocinata dall'Assessorato alla Cultura del Comune. E' l'esordio ufficiale, come ha dichiarato la scrittrice Vera Ambra che del sodalizio è animatrice, della Associazione Artisti e Creativi. Apparentemente manierata la forma, assaj originale la sostanza. C'è, per chi vuol vederla, quella "cornamusa del Natal" cantata in celebri versi dal Vate italico Mario Rapisardi; v'ha nondimeno un quid rivoluzionario, nel televisore zèppo di telefonini cellulari, in forme ovoidali che ricodan feti e forse son cervelli, in marionette mute ma dall'ugola possente, appese a fili visibilissimi al muro; v'ha da narrare molto quella lumaca enorme, il cui guscio è composto da fogli di giornale (sì, proprio le nostre parole che amiamo vedere ancor stampate nero su bianco mediate da inchiostro e carta: osservate quanto valore hanno, a che fine giungono...), assisa in modo eloquente nell'angolo. Bisogna guardare oltre le forme, ed i nostri artisti lo fanno, forse in modo troppo esplicito: e però bisogna dar loro atto di tenere diritta la barra, come nocchieri indomiti, verso la mèta intravveduta oltre le erculee colonne.
Quelle marionette, cercano le nuvole: proprio il clima natalizio, che sovente indulge allo spleen poetico, può essere spesso, forse in modo massimamente plastico che la pur nobilissima e non negoziabile culla di Greccio, intravveduto leggendo artisticamente l'esposizione di Graziana Scalisi, Giorgio Russello ed Ezio Scandurra, fra i cirri dell'incipiente tramonto. Lo capì un poeta maledetto come Pasolini che, regista, suggerisce al Principe Totò De Curtis, vestito da Jago e gettato da un curioso spazzaturajo Modugno nell'immondizia: "Guarda, le nuvole... Struggente bellezza del Creato...". Così ad uno straniero che dichiarava di non amare nè la famiglia, nè la patria, nè Dio, nè la bellezza, Baudelaire (in uno degli straordinari poemetti in prosa), fa dire: "Eh! ma allora cosa ami, straordinario straniero? -Amo le nuvole... le nuvole che vanno... laggiù... laggiù... le meravigliose nuvole!"
F.Gio

martedì 15 dicembre 2009

L'altarino di Sant'Agata in via della Palma a Catania




Sino agli anni Venti del secolo XX, la processione del fercolo di Sant'Agata in Catania, oggidì conosciuta in tutto il mondo attraverso i mezzi di comunicazione, ma già in passato celebre per fasto e maestosità, percorreva via Vittorio Emanuele, sino al tempio detto di S.Agata 'alle sciare', a nord dell'odierna piazza Machiavelli, ove si eresse tal luogo di culto a memoria dell'immagine della Santa protettrice dela città, ivi trovata durante l'invasione delle lave del 1669 nel territorio civico. Nella salita -la strada che fu detta reale, ai tempi borboniani, procede in leggero declivio dal Municipio verso ovest- , il fercolo si arrestava all'angolo còlla via della Palma: il motivo è la presenza di un altarino che racchiude una immagine della 'Santuzza', poco distante dall'incrocio.
La processione, da circa settanta anni, prosegue per altre vie, ma l'altarino è ancora lì, tra il civico 48 ed il 50 di via della Palma, accanto al cortile chiamato 'di Agatina', non a caso. La storia di codesta edicola sacra è interessante e poco nota, sebbene i catanesi autentici che ivi transitano lo osservino con affetto. Bisogna innanzi tutto precisare che la via della Palma, la quale si percorre 'a pinnìnu', come si afferma in lingua sicula, ovvero in discesa da nord a sud, intersecando via Vittorio Emanuele, via Pozzo Mulino sino a via Garibaldi (ove angola col tempio di S.Maria della Palma, adesso adibito a sede teatrale), è tra le strade più antiche della topografia di Catania. Essa è già presente nella pianta del XVI secolo della città disegnata dal Braun, ove si nota una immensa palma che sovrastava le abitazioni circostanti, dònde il suo nome.
L'altarino di Sant'Agata nasce evidentemente per intenzione del vicinato, a puro scopo devozionale, nel XIX secolo (se non prima: non si dispone di testimonianza anteriore), ma rovina, come alcune abitazioni vicine, per la particolare conformazione della strada, durante il terremoto di Messina del 1908 che, sebbene in misura lieve, data la sua potenza, apportò alcuni danni anche in Catania. La spiegazione che infatti si legge nel marmo, sotto l'inferriata che protegge una immagine a stampa della Vergine catinense (di nessun valore artistico invero: mentre sconosciamo l'originale icona) è la seguente: "W S.Agata. S.Agata vergine e martire - a grata e perenne memoria - per la liberazione del terremoto - del 28 dicembre 1908 - il vicinato devoto ristorò". E' evidente, in codesta invocazione protettiva, il ricordo mai spentosi nelle generazioni di catanesi, dei sismi che negli ultimi secoli distrussero o danneggiarono gravemente la città: nel 1818, nel 1783 e, tremendo e distruttivo in assoluto, quello del 1693 che lasciò solo rovine, per cui l'urbanistica di Catania è affatto settecentesca. Dopo quell'evento spaventoso, mutàronsi persino i nomi di alcune strade: via della Palma invece, quasi come mònito di indistruttibilità, rimase appellata nel medesimo modo. Evidentemente la protezione di Sant'Agata per questa via ed i suoi abitanti è particolarmente efficace. Ancora oggi, nei giorni di febbrajo e di mezz'agosto, festività agatine, molti devoti depongono ceri votivi inanzi alla sacra effigie, che documenta un culto quasi bimillenario(se non si computa il precedente isiaco, sul cui tronco fervidissimo quello della Vergine Agata s'innestò felicemente), che unisce in appassionato amore l'intiera comunità dei catanesi, in patria e nel mondo.
FGio

(fotografie dell'Autore: l'altarino illuminato a festa, 4 febbrajo 2009)
testo rilasciato sotto cc-by-sa / GFDL

mercoledì 9 dicembre 2009

Silenzio assordante per Francesco, Patrono d'Italia


Settanta anni fa Pio XII lo proclamò protettore d’Italia


Silenzio assordante per Francesco, patrono della nostra Nazione


Persino Benedetto XVI, nel giorno della sua festa, "dimentica" di ricordarne le virtù – Il grande messaggio della povertà che l’umile frate ha lasciato, validissimo oggi e domani -



E’ illuminante la constatazione di quanto la nostra bella Patria, mentre è stata gloriosamente beneficata nel passato da reggitori che l’amarono con assoluta evidenza, vèrsa negli ultimi tempi nella condizione di carenza diremmo quasi affettiva, da cui financo i massimi esponenti non si esimono. E’ il caso di San Francesco, il Poverello di Assisi elevato da subito agli altari, di cui quest’anno si celebra il settantesimo della sua proclamazione a Patrono primario, unitamente a Caterina da Siena, d’Italia. Nel giugno del 1939 l’illustre principe e Pontefice Eugenio Pacelli, da tre mesi incoronato Pio XII, nel suo primo atto magisteriale vòlle concretamente, e di ‘motu proprio’, con la formula del ‘breve’, donare alla Nazione italiana, ai fini di intensificarne la devozione in particolare –come afferma il documento, del 18 giugno- "nelle difficoltà dei tempi che da ogni parte premono..", verso il venerato padre dell’Umiltà e della perfezione, colui che solo fu degno di essere paragonato al Cristo degli Evangeli. "Difatti S. Francesco, poverello ed umile, vera immagine di Gesù Cristo, diede insuperabili esempi di vita evangelica ai cittadini di quella sua tanto turbolenta età e ad essi anzi con la costituzione del suo triplice ordine, aprì nuove vie e diede maggiori agevolezze per la correzione dei pubblici e privati costumi e per un più retto senso dei principi della vita cattolica", scrive ivi Papa Pacelli, con meditato pensiero. Quest’anno la festa del Santo si svolse come sempre in Assisi nella basilica ove egli riposa, mentre la Camera dei Deputati celebrò, con una cerimonia nella sala ‘della lupa’, l’avvenimento: epperò la suprema autorità della Chiesa, ossia il Papa Benedetto XVI, persona vigile ad ogni sommovimento spirituale dell’ecumène da lui guidata e fine teologo, nel giorno, 4 ottobre domenica, della festa del Santo, non solo non cennò minimamente alla sua figura, e neppure al settantesimo dalla proclamazione, ma si ricordò perfino di avvenimenti che crediamo minori (come la giornata per l’abbattimento delle barriere architettoniche), mentre ignorò totalmente, caso che si crede sino ad oggi unico nella storia dei Pontefici romani, di anche solo fugacemente accennare alla figura dell’umile poverello fondatore di uno degli Ordini più prestigiosi della cattolicità (ognuno può verificare, leggendo i comunicati della sala stampa della Santa Sede, nel sito Internet).
E’ un atteggiamento quantomeno singolare, considerata la grande devozione che suoi predecessori come Giovanni XXIII, il quale era pure terziario, ma anche Giovanni Paolo II, hanno avuto per Francesco. Segnale di qualcosa che in assordante silenzio si vuole comunicare a qualcuno? Non è necessario sempre svolgere considerazioni dietrologiche, gli è che tale comportamento da parte di Joseph Ratzinger, uomo assolutamente intelligente ed attentissimo alle sfumature, merita di essere attentamente compreso e valutato. E tuttavolta, testimonia un fatto che appare, nella sua triste evidenza, ogni giorno più incontrovertibile: l’allontanamento della Chiesa che si dice fondata da Gesù stesso attraverso Pietro, dagli ideali evangelici di povertà ed umiltà, nel XIII secolo perfettamente incarnati da Francesco. "Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro: non potete servire a Dio e a Mammona" (Mt.6,24). E’ evidente che, a parte le laudevoli eccezioni, i vertici e le varie comunità della Chiesa cattolica han fatto la loro scelta, la quale sempre più appare antievangelica; ciò addolora, ma non si può non constatarne la fondatezza, di là dalle intenzioni, dalle parole. Una simile omissione è la più eloquente testimonianza, nonché l’evidente silenzio che da tutti i pulpiti è seguito, senza bisogno di ulteriori commenti.
"Fin dalla conversione", scrive la ‘Leggenda perugina’, "Francesco con l’aiuto del Signore fondò sé stesso e la sua casa, vale a dire l’Ordine, da sapiente architetto, sopra solida roccia, cioè sopra la massima umiltà e povertà del figlio di Dio… senza nulla voler possedere sotto il cielo all’infuori della santa povertà…". Tra gli studiosi che negli ultimi anni hanno prescelto l’analisi adeguata ai tempi moderni del "più Santo fra gli Italiani, del più italiano dei Santi", come affermò Pio XII, è Leonardo Boff, già sacerdote francescano, il quale nel suo libro "Francesco d’Assisi, una alternativa umana e cristiana", scrive: "Tutti i maestri di spirito vissero e predicarono una vita di povertà come forma ascetica per liberare lo spirito dall’istinto del potere e dall’attaccamento al godimento dei beni materiali. Questa virtù non è specificatamente cristiana. Essa si impone come esigenza di ogni ascesa spirituale e di ogni autentica creatività in qualsiasi campo della dimensione ‘creativa’ dell’uomo. La povertà, come virtù, si colloca tra il disprezzo e l’amore dei beni. Si tratta del loro uso moderato e sobrio, uso questo che può variare secondo i luoghi e le culture, il cui significato tuttavia resta sempre lo stesso: la libertà dello spirito per poter realizzare le opere proprie dello spirito che sono la libertà, la generosità, la preghiera, la creazione culturale. Povertà-ascesi significa saggezza della vita. L’opposto di questa forma di povertà è la prodigalità e lo sperpero irresponsabile. Fare una scelta per la povertà, in questa accezione, significa… scegliere una vita senza lusso ed anticonsumistica contro una società della produzione per la produzione e del consumo per il consumo" (pag.95 ed.it. 1981). Rarissimamente codeste parole, dette da un uomo di Chiesa –poiché si è sacerdoti in eterno- hanno a nostro avviso il chiaro potere di squarciare il velo della ipocrisia, della menzogna, della fraudolenza che si accatasta sugli animi e sui corpi di ciascuno di noi, e massime su coloro che per investitura hanno avuto il compito di guide, di pastori, di reggitori dei popoli e di comunità. Parafrasando John Kennedy, ci si consenta di immaginare un sogno: se un pensatore raffinato, un uomo del genere di Leonardo Boff disposto ad applicare quel che abbiamo letto, fòsse investito della tiara papale, quale rinnovellamento per la comunità cattolica si potrebbe intravedere… Ma forse ciò è già accaduto, volando col pensiero a Papa Luciani (unico Papa ad aver scelto per mòtto la parola francescana ‘humiltas’), benché solo per pochi, trentatré, giorni…
"E così si adagiò ignuda sopra la nuda terra. Chiese inoltre un guanciale per il suo capo, e quelli subito portarono una pietra e la posero sotto il capo di lei": è la Povertà che incontra i figli di Francesco, i frati, nello scritto noto come "Sacrum commercium". Inutile nascondersi dietro làcere vestigia, oltre muri di fango: se il modello non scaturisce dal cuore del singolo, come fu per il Santo che chiedeva una, due, tre pietre, nudo e lacero, per la ricostruzione del Tempio di San Damiano, non avrà seguito lo sforzo riformatore, rivoluzionario quasi, che deve portare alla radicale modifica della società moderna. Sì, avrebbe effetti assoluti osservare un Pontefice, come Giovanni XXIII cominciò a fare, dormire con guanciale la pietra santa della Povertà: epperò ciascuno di noi, spogliandosi degli orpelli e del veleno del modernismo e del consumismo capitalistico, tornando a vivere secondo dimensioni sociali e comunitarie, dovrebbe non solo amare, ma dimorare lungamente su quella pietra. Sentirne il freddo gelido, percepirne la durezza. Ed alfine, constatarne l’ardente, inestinguibile fuoco.


Barone di Sealand


(pubblicato su Sicilia Sera n° 323 del 6 dicembre 2009)

martedì 10 novembre 2009

Proclama della Vittoria del Re Vittorio Emanuele III 9 novembre 1918

Presentiamo una video lettura del proclama che Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III indirizzò il 9 novembre del 1918 ai soldati ed ai marinai delle Forze Amate, al fine di celebrare degnamente la Vittoria dell'Italia nella Guerra mondiale. E' un testo poco noto, se si paragona al celeberrimo ultimo bollettino di guerra del Maresciallo Diaz: tuttavia conserva intatta la freschezza e la passione del tempo, documentando altresì il profondo amore del popolo italiano per il suo Sovrano e del Sovrano per il popolo.
Lo si propone nel duplice anniversario della fine dell'immane conflitto e nel 140° genetliaco del nostro monarca, che con cognizione di causa fu appellato 'Re Soldato', auspicando il sollecito ritorno delle sue mortali spoglie in Italia, per la degna sepoltura nel Pantheon di Roma. Lettura di Francesco Giordano; istantanea di una delle tante trincee, nell'attesa dell'attacco, testimonianza dell'eroico sacrifizio del nostri soldati per la grandezza della Patria. In sottofondo, "La leggenda del Piave", suonata dalla banda Milano, anni Quaranta.

giovedì 24 settembre 2009

“Catania nella memoria”, ovvero un libro che è atto d’amore

In occasione della giornata mondiale per la lotta all’Alzheimer, la nota malattia degenerativa del cervello di cui misteriose sono le cause e tristissime le conseguenze, anche Catania ha voluto svolgere la sua parte: così il 21 settembre al cortile Platamone, col patrocinio del Comune nonché di molte associazioni culturali unite per codesto fine, l’Associazione Malati di Alzheimer ha, con un convegno ed un finale intrattenimento canoro, voluto incontrare il numeroso e qualificato uditorio intervenuto, onde sensibilizzare e sostenere la ricerca per tale morbo. Proprio a tale scopo, l’Associazione culturale Akkuaria presieduta da Vera Ambra, ha fortemente voluto la edizione di un volume antologico, "Catania nella memoria", a sostegno della importante iniziativa. E se la serata, coincidenza forse non casuale, dell’equinozio di autunno, si concluse con le narrazioni piacevoli e armonicamente sonore dei cantastorie Carlo Barbera (che intrattenne sul ‘cuntu’ di Ulisse e Polifemo) e di Alfio Patti (il quale dipanò un pout-pourri di canzoni della tradizione siciliana, inframmezzate da poesie e aneddoti), quel che rimane, come insegnano tutte le manifestazioni di tal guisa, è appunto la parola scritta. Pertanto il volume collettaneo edito dall’Associazione Akkuaria, curato da Vera Ambra –il quale si può richiedere direttamente tramite il sito del sodalizio, o trovare nelle librerie- è testimonianza tangibile del momento in sé contingente.
Un libro variopinto, che si è voluto anche definire "viaggio alla scoperta della catanesità". Difficile, negli ultimi tempi quasi soffocati da pubblicazioni sovente inutili e che nessuno leggerà, coniugare la estrema modernità colla più pura tradizione. Difficile parimenti riscontrare un ‘sì originale connubio, ove alla intelligente raccolta attenta e coerente di storie, poesie, monumenti, luoghi , leggende e modi di dire riguardanti quella che il recentemente scomparso, e compianto, storico Santi Correnti appellò "la città semprerifiorente", si alternano dòtti studiosi, scrittori e poeti, investigatori della parola non paludati nelle mutrie accademiche ma sovente operanti su Internet (è il caso, di lieto esito, del gruppo che sul network Facebook ha contribuito con l’utilissimo dizionario delle parole in vernacolo catanese, molte ignote ai più). Quindi l’unirsi delle nuove tecnologie con gli usuali stilemi della ricerca, ha potuto far sì che l’iniziativa voluta da Vera Ambra, donna appassionata di letteratura, poeta e narratrice ella medesima, che dell’amore per la diffusione del verbo culturale in Sicilia e nell’intera Nazione nonché nel mondo, attraverso le numerose iniziative e contatti con scrittori di varie nazionalità, ha fatto il proprio obiettivo primario, quasi una scelta di vita, rimanga concretamente quale atto di amore, con caratteristiche uniche. Ideare una antologia è opera di responsabilità, che comporta delle scelte permanenti. Molto altro vi sarebbe stato da dire, da aggiungere, da integrare: tuttavia il testo si sarebbe trasformato in un ‘mattone’, magari accettabile sotto il profilo della completezza, ma inutilizzabile dal punto di vista pratico. Ed il libro, sovente lo si dimentica, è anche, forse sovra tutto, un ‘oggetto’ pratico, non solo scrigno dell’Ideale.
Sfogliando il volume, si possono infatti leggere, vergati da autori quali lo scrittore Aldo Motta, il docente universitario Antonio Di Grado (che in un delizioso ‘cameo’ ricorda la genesi culturale di via Alessi), lo studioso e giornalista Francesco Giordano (sul settecentesco palazzo Fassari Pace, mai prima studiato, di via Vittorio Emanuele), ed altri apprezzabili per intensità di stile, pagine appassionate ed interessantissime, le quali documentano la simbologia, il mito, la realtà e la leggenda vivente della vulcanica patria di Sant’Agata e di Bellini, i cui duemila e settecento anni di storia son perennemente vivi e densi di creatività artistica, nonostante le numerose distruzioni, e la ferrea volontà di risorgere come fenice dopo il furioso rogo. "Catania è una città che sento forte come una madre, tiranna, gelosa, possessiva, avara e generosa. Catania, imponente e brontolona, è ancora oggi una parola che navigava lungo la rotta di quella speranza che colma la distanza fra l’illusione… per certi versi astratta eppure concreta, mimetizzata come la lava sull’Etna: così la percepii dal primo istante che mi prese per mano e mi incatenò con i suoi colori, i suoni, i suoi odori": tale è la parola di Vera Ambra, nel filo dei ricordi tracciato nel paragrafo "Il cuore stantuffava"; così la malìa arcana che avvince coloro che dalla figlia primigenia dell’Etna, la montagna per eccellenza, vengono avvolti, siano nativi della città o adottivi, è indissolubile. E però foriera di grandi passioni e di grandi illusioni: "Sanguini \ indomita \ irrequieta \ accanto ai tuoi figli \ e poi regali \ spiragli di speranze \ come acini d’uva \ sul profumo \ del melograno \ dimentico \ della nerazzurra onda \ ai piedi del tuo Vulcano". In tali versi, sempre della Ambra, notiamo sintetizzata la silente tragedia che sovente si costruisce entro ed attorno le antiche, or settecentesche mura, della città. La quale, come argutamente scrive Cecilia Marchese ne "La dea città", è "alchemica, sintesi perfetta dei quattro elementi che compongono le cose dell’universo in tutte le tradizioni magiche ed esoteriche del Mediterraneo": importante codesta interpretazione, da rammentare in specie riguardo l’antica storia civica, ove è noto che molte scelte e comportamenti (si pensi al leggendario ‘magus’ Eliodoro, come alla favola, non scevra di concretezza, del cavallo senza testa, ivi ricordate) affondano le radici nel mondo della autentica religiosità, non già dogmatica ma intrisa di ermetismo. Nel volume non manca un paragrafo dedicato al mare (nota di R.H.Clarke), nonché ai modi di dire, a cura del linguista Salvatore Camilleri: infine, una divagazione sul calcio nel ricordo del presidente della squadra locale, Angelo Massimino, e pagine sentite di come Catania può venire interpretata dai visitatori.
Helvétius ha scritto: "On ne vit que le temps qu’on aime", ed a noi pare che tale sentimento, tale atto di amore verso una città alle volte abbattuta, spesso oscura ma dalle infinite potenzialità che solo pochi artefici, magari nel secreto dei templi, riescono ad accendere come prometeica fiaccola, debba esser di molto rinfocolato dalle duecento ed otto pagine di "Catania nella memoria". Rimembranze senza il cui vissuto è solo la morte, ovvero l’oblìo di ogni Luce. Ma per Catania, "con le sue lastre di lava scure, le sue edicole tappezzate di giornali, i suoi cinematografi, le sue pasticcerie affollate, i suoi monumentali orinatoi sfarzosamente illuminati", scriveva in "Giovannino" con malinconica nostalgia l’indimenticato Ercole Patti, che "aveva un’aria alacre ed allegramente funebre", se non può che esservi ancora un futuro non avvolto dal nero manto delle Parche, esso deve necessariamente dipanarsi fra le mani di coloro che l’amano. I quali dimorano, immortalò in un verso cesareo Mario Rapisardi, altro figlio ed innamorato delle nostre contrade, "tra l’Etna ed il mare", i "grandi amici" che vegliano, silenti ed immortali, le soglie del sacrario.

FGio

venerdì 21 agosto 2009

Sant’Agata di mezz’agosto a Catania com’era…


Com’era bella un tempo, la festa di Sant’Agata di mezz’agosto! Noi catinensi la chiamavamo così, allorché era ancora ‘nostra’. E per ‘nostra’ intendiamo affermare una visione intimistica, quasi esclusiva, dell’uscita del busto reliquiario della Patrona cristiana della città, rammentandosi non solo l’anniversario del ritorno delle reliquie, il giorno 17 agosto del 1126 ad opera dei soldati bizantini Gisliberto e Goselmo, animati del resto non già da sola virtù ma da immortale ricordo (infatti sono sepolti nella cappella detta dei Re aragonesi, a destra di quella agatina, nel Duomo della città: pensate, due umili militi che dimorano accanto a’ Sovrani d’Aragona… et in pulvis reverterunt…!), resti mortali della Vergine traslati la notte dell’otto gennaio del 1040 dallo stratigò bizantino Giorgio Maniace venuto in Sicilia a combattere i mussulmani che la possedevano, ma anche lo scaturire delle feste popolari, le quali sin da quel secolo XII ebbero inizio in modo istituzionalizzato, stratificandosi pòscia nel noto cerimoniale del secolo XVI, più volte modificato sino ad oggi.
Com’era bella, si affermava, la tradizione del ritorno sulle onde del Mediterraneo, da Costantinopoli teatro delle gèsta di Eliodòro, a Catania, delle frànte ma –si afferma- incorrotte reliquie della ‘Santuzza’, come i catinensi la appellano: siccome Iside fu dèa navigera, ed in Apulejo (Metamorfosi) ne abbiamo autorevolissima ed affidabile testimonianza (egli fu suo sacerdote), vogliamo credere alla pia leggenda non senza ingegno intessuta da’ Vescovi cristiani dell’accorrere i catinensi annottando, in camicia bianca onde ricevere, già arrivata la nave con lo scrigno reliquiario nel castello di Aci ed ivi ricevuta dal benedettino Vescovo Maurizio, a festeggiare dopo ottantasei anni, il ritorno della fanciulla quattordicenne simbolo di incorrotta virtù, da quel momento dimorante nel recentemente costruito, e turrito, edifizio della Cattedrale. E poco cale se i sacerdoti issaci ebbero appunto la bianca veste, e le donne quella verde (colore alla Divina Madre consacrato): in commistione perfetta, il popolo sempre più intuitivo dei saccenti e dei manipolatori della Verità sa, e ben conosce, chi è la Magna Mater ed a chi deve rendere il devoto omaggio.
Agata dunque, il 17 agosto alla sera, in tra fuochi d’artifizio non invasivi, sino a pochi anni fa mostràvasi mesta quasi, senza pompa, solo nelle sue vesti semplici del busto reliquiario, aggirare l’elefante su cui sovrasta l’obelisco egizio, quindi in senso antiorario ritornare alle antiche origini, non prima di aver riveduto il sacro mare, per poi quasi subito rientrare. Una timida uscita, per i pochi rimasti in città, nella calura agostana.
Ahinoi, tutto vanisce, nella mèsse del consumismo. Oggidì la piazza del Duomo appare stracolma più di allogeni che di autoctoni, i quali del resto non tutti ma in parte, come avviene nel rimanente mòndo imbarbarito dalla massificazione cosmica, dimenticarono la circostanza di raccoglimento che tale festa dona, in misura molto minore di quella, ben più solenne e maestosa, dei giorni del martirio, nel febbraio di ogni anno, che vede il fercolo girare per la città; invasione di corpi consumanti aria, quella residua che rimane dall’aspirazione impietosa degli apparecchi di refrigerazione installati in quasi tutte le case (e che nel centro storico settecentesco di una città antica costituiscono autentico segno della diminuzione di ossigeno), ove esso non venga da parte delle politiche autorità antropizzato del tutto (ovvero chiuso senza appello, non in minima parte ma completamente, al traffico automobilistico, vera fonte mefitica del calore eccessivo); un diciassette agosto dunque non più alla Vergine catinense dedicato, ma al commercio più sfrenato, al consumismo e sopra tutto, al trionfo dell’egotismo oltre la solidarietà fraterna la quale proprio dalla Luce di quella fanciulla incorrotta viene versato, in ogni caso ed in ogni tempo, nei cuori di chi sa comprendere, oltre ogni distinzione di fede come di assenza di essa, di razza, di ceto sociale.
V’ha una scritta, sul portale a sinistra osservando la Cattedrale di Catania, in sigla che quasi nessuno rammenta: con motivazioni comprensibili, per coloro che ne han dònde. E’ "NOPAQVIE", ovvero "non provarti, o tu che varchi codesta soglia, ad offendere la patria di Agata, la civitas Catinensium, perché Costei è sicuramente vendicatrice delle offese ricevute". Se si notano le vicende degli ultimi amministratori politici della città, riguardo i guai giudiziarii e di salute, jeri ed oggi, si può dire che l’invocazione terrifica non è priva di valore. Anche dèssa è di origine precristiana, se proprio si vuol sceverare nelle antiche reliquie. Come Agata la bella, la Santa pura che naviga serena sul mare e che la tradizione religiosa (dallo storico reverendo Consoli a Padre Santo), vòlle segnalare qual giorno di nascita l’otto di settembre, del 238. Natività di Myriàm, appunto. Ave, Maris Stella. Anche se travolta dal triste modernismo delle màsse che più non ti consente di apparire come un tempo e ti dòna abiti inconsueti, ciò fa parte della ruota del Destino. Tornerai a risplendere, intemerata e dolce, nella intima povertà, nella quasi solitudine, di un tempo felice, ove fiorivano gli ibischi, senza che fòssero soffocati dal tànfo dei troppi, indegni profani.

martedì 7 luglio 2009

La poesia La bicicletta di Giovanni Pascoli letta da Francesco Giordano

Presentiamo una video lettura della poesia "La bicicletta", di Giovanni Pascoli, pubblicata nella raccolta celeberrima dei "Canti di Castelvecchio" (da "Poesie di Giovanni Pascoli", Mondadori, Milano 1940 2°ed.). In ricordo dell'immortale Poeta, di una visita alla casa avita in quel di Barga, anni fa, uno dei templi italici della Poesia, nonché omaggio al velocipede simbolo di assoluta Libertà.
La voce è di Francesco Giordano ; la fotografia risale al 1903, il medesimo anno della raccolta di liriche, scattata nel giardino della casa di Castelvecchio; l'accompagnamento musicale sullo sfondo è di Niccolò Paganini, "Le streghe", variazioni sul tema del balletto "Il noce di Benevento" di F.X.Sùssmayr (l'allievo di Mozart che ne completò il Requiem), per violino e pianoforte op. 8, del 1813; il violino dell'esecuzione è un Guarneri del Gesù appartenuto al Paganini.

lunedì 22 giugno 2009

La bella Emma e l'eroe Nelson a Catania. Un curioso episodio.

Gli anni dal 1799 al 1814 videro la Sicilia al centro della politica mediterranea dell'Europa e, per la ininterrotta guerra che gli stati del Continente capitanati dall'Inghilterra mantennero contro Napoleone Bonaparte e la Francia repubblicana ed imperiale, la nostra isola ebbe il privilegio di costituire non solamente l'indispensabile base delle operazioni navali contro l'Armata francese, ma anche beneficiò delle riforme economiche, politiche e sociali connesse. Il culmine di ciò si ebbe con la costituzione siciliana del 1812, concessa mercé il volere di S.M. Britannica ed imposta al riluttante Ferdinando, che per sdegno nominò vicario generale del Regno (il napoletano occupato dal Murat) il figlio Ferdinando. Ma questa situazione è diretta conseguenza dei due grandi combattimenti navali che diedero alla Home Fleet il predominio mondiale sulle acque mediterranee: ovvero la battaglia di Abukir (estate 1798) e quella di capo Trafalgar (ottobre 1805), dovute al genio militare dell'ammiraglio Horatio Nelson.
La figura fulgida di questo eroe indimenticabile, è indissolubile con quella della Sicilia, in quei giorni 'inglesizzata'. I marinai della flotta britannica infatti per ben due volte protessero la Sicilia e la famiglia Reale borbonica dalle invasioni dei ribelli giacobini e dell'esercito dell'Impero, costituendo il baluardo della libertà e della tolleranza civile, in anni di abbandono e di barbarie generalizzata. Dopo la grande vittoria colta nella rada egiziana dalla flotta del Nelson sulle navi napoleoniche, abbandonato malvolentieri il generale di là dalle piramidi, avendo avuto notizia "di alcuni scontri che essi chiamano grandi vittorie", l'ammiraglio fa ritorno a Napoli. Da lì protegge la ritirata della famiglia Reale a Palermo e, dopo la riconquista del regno nella primavera del 1799 ad opera delle truppe sanfediste del cardinale Ruffo e del presidio formidabile delle navi inglesi a Procida Ischia e Capri, riporta i sovrani sotto il Vesuvio, mentre il popolo festante intona la celeberrima melodia "Torna maggio".
Nominato in quell'agosto, tra il tripudio generale della popolazione che appare, dalle lettere dei contemporanei, esaltato sino al parossismo, duca del feudo di Bronte da re Ferdinando, Horatio Nelson ne va immediatamente fiero, non solamente per il significato del nome (il ciclope del Tuono) che si ricollega alla sua infermità -sin dal 1794, causa l'assedio di Calvi, è orbo dell'occhio destro: ed a Teneriffa nello stesso anno, perderà il braccio- , ma anche per l'alto grado del titolo (e per la rendita di tremila sterline del feudo), adeguato a quanto egli stesso si sarebbe aspettato dal suo governo, che invece per la magnifica vittoria dell'Oriente si degnò concedergli il non brillantissimo titolo di barone del Nilo e Visconte di Burnham Thorpe (il villaggio natale). Egli fu ed è nondimeno il più popolare condottiero che la Gran Bretagna abbia mai avuto. E tuttavia, più d'ogni cosa al mondo, il valoroso combattente che non ebbe fortuna nel focolare domestico, trovò la devota affezione, l'amore a tratti eccessivo ma prepotentemente sincero di Emma Hamilton, a quel tempo moglie dell'incaricato d'affari inglese a Napoli, la donna più bella di quegli anni. Così Volfango Goethe la descrisse nel 1787, ammantata del peplo ellenico : "... per vero dire ch'ella è propriamente bella di figura e di persona... il vecchio cavaliere... trova in quella giovane tutti i pregi dell'arte antica, il profilo delle monete siciliane e quello pure, io credo, dell'Apollo del Belvedere...". Se a tanta soave bellezza, alle doti in lei circonfuse del canto e della passione intrepida che con buona dose d'ingenuità metteva nel suo ruolo di tramite fra la Regina Maria Carolina ed il marito, quale indispensabile fonte di informazioni per il gabinetto di San Giacomo, si unisce la volontà del glorioso ammiraglio di desiderare, come egli le scrisse mentre bordeggiava le coste danesi (era il 1801) "la pace, ed allora partiremo per Bronte... in dodici ore avremo attraversato le acque... nulla potrebbe impedirmi di andarvi...", può ben comprendersi la passione impetuosa che li unì d'amore profondo ed immortale. Passione coronata dalla figlia Horatia, lungamente amata: Nelson volle legare entrambe "al Re ed al Paese" affidandole alle cure, poi non corrisposte, del governo britannico.
Questa la situazione in quei giorni, indispensabile premessa per la chiara comprensione di un curioso episodio occorso a Catania, dove sovente il Nelson con le sue navi (dall'agosto 1799 al gennajo 1800 più spesso, poiché esercitò le funzioni di Comandante in Capo della Home Fleet nel Mediterraneo) attraccava, ancorandole al largo delle scogliere dell'Armisi e della "porta di ferro", entrando nell'abitato per il piano della Statua. In quelle settimane egli si riforniva in città per alimentare l'assedio della Valletta, a Malta, ove resisteva una guarnigione francese, che avrebbe presto capitolato. Lo speziale Salvatore De Gaetani, della cui famiglia esiste ancora la farmacia (qualche isolato più in giù di allora), in via Vittorio Emanuele nel rione Civita, ebbe modo di curare una tipica forma di malanno dei marinai detta scorbuto, ricevendo le lodi dall'ammiraglio. Sembra anzi che questi donò del metallo di cannoni francesi, da cui il De Gaetani trasse un mortajo ancora esistente in farmacia. Ma pare leggenda, perché la data incisa nel bordo (all'incontrario) del manufatto è il 1842.
In una delle frequenti visite in città (narrano le cronache pettegole dell'epoca, in particolare quella dei Cristoadoro, i cui manoscritti sono custoditi dalla Biblioteca Regionale Universitaria della città etnea) Nelson e la Hamilton, accompagnati dal vecchio Sir William, furono ospiti nel palazzo dei baroni Massa principi di San Demetrio, il più sfarzoso dei cosiddetti "quattro canti" etnei (in parte rifatto dopo il bombardamento aereo del 1943). Nella corte dell'edificio, come era d'uso, s'ergeva un teatrino privato: e vi fu chi riferì che Emma ebbe ivi l'opportunità di esibirsi in una danza al suono di arpe elleniche , ed innanzi all'estasiato Nelson ed ai convenuti dell'aristocrazia rimase letteralmente senza veli, così da poterne osservare le morbide fattezze! Ciò, come si immagina, destò ulteriore chiacchiericcio per la già discussa relazione: la quale tuttavia si protrasse per la rimanente vita di Nelson.
Se infine egli non fosse caduto al servizio della Patria e dell'Europa a Trafalgar, i suoi stessi scritti ci permettono di affermare che avrebbe concluso serenamente i suoi giorni sotto il cielo poetico e stellato della ducéa alle falde dell'Etna, contemplando l'Orsa fra le braccia della bella Emma. Il destino decise però diversamente, ed il Tempio di San Paolo a Londra venera ognora colui che il poeta Giovanni Meli chiamò "anglu-sicanu eroi".




Nota: Questo articolo di Francesco Giordano è stato stampato, in edizione leggermente ridotta, a pagina 40 della rivista "La Provincia di Catania – organo ufficiale della Provincia regionale", anno XXI numero 2, febbraio 2003, con il titolo "La dolce vita catanese dell’Ammiraglio".

mercoledì 3 giugno 2009

Un gioiello della architettura settecentesca di Catania: il palazzo Fassari Pace

Il palazzo Fassari Pace può essere considerato come splendido esempio di architettura civile settecentesca, nella ricostruzione di Catania dopo il disastroso terremoto che totalmente la distrusse, l’undici gennaio del 1693. E’ la prima volta in assoluto che se ne descrive l’esistenza, in un percorso ideale di valorizzazione del patrimonio artistico delle città barocche di Sicilia e d’Italia. Ubicato nella parte alta di via Vittorio Emanuele, già strada del Corso reale, asse viario il più vetusto della Catania sin dall’antichità ellenica, il palazzo si apre su quest’ultima nella sua facciata ariosa e semplice di barocco classicheggiante, angolando tra le vie Santa Barbara e della Palma, rivolto a sud; al nord è costeggiato dalla via San Barnabà, da cui si accede per via della Palma; nel Settecento era nella parte interna ornato da un giardino, oggi scomparso. E’ accanto all’ex convento della Trinità, oggi sede del liceo scientifico Boggio Lera, impreziosito dalla omonima chiesa.
La sua costruzione si può far risalire con certezza al primo trentennio del XVIII secolo: tuttavia sin da prima del devastante terremoto e dalla eruzione lavica del 1669 che invase il perimetro urbano (ma non il luogo ove sorge il palazzo), erano ivi presenti, seppure il vecchio Corso aveva un tracciato non lineare ma leggermente sinuoso, abitazioni di fattura similare. Ciò può vedersi nella pianta di Catania pubblicata dal Cluverio (Sicilia antiqua, Leida) nel 1619. La presenza del severo e maestoso palazzo settecentesco, nei suoi due primi ordini, terrano con le botteghe, e piano nobile caratterizzato dalle cornici degli otto balconi che si affacciano nella pubblica via, con disegno rettangolare sovrastante, è rintracciabile nelle due piantine di riferimento, che lo vedono con esattezza delineato: quella di Giuseppe Orlando, stampata nel 1760, e quella (del medesimo periodo, poiché l’autore moriva nel 1762) che è inserita nel testo Lexicon topographicum siculum, dell’erudito abate Vito Maria Amico Statella. In tali disegni accurati degli edifizi della città, sorta con stile quasi militare per volontà del duca di Camastra Giuseppe Lanza, vicario generale del Regno per volere del Viceré de Uzeda, l’ingegnere militare Grunemberg ricalcò sostanzialmente gli schemi delle strade principali esistenti prima del sisma, la più importante delle quali, per la presenza del teatro greco romano e la salita verso i Benedettini nonché il collegamento verso il mare, è proprio via Vittorio Emanuele, si notano nitidamente i palazzi eretti e lo stato dei lavori all’epoca della stampa. Il palazzo Fassari Pace era allora stato costruito solo nella sua parte centrale: mancava il secondo piano, probabilmente concepito sin dal disegno originario,che sarà completato tra il XVIII ed il primo trentennio del XIX secolo: come attesta la pianta di Catania di Sebastiano Ittar, edita nel 1833. Pertanto la forma definitiva dell’edificio si può datare a quest’ultimo periodo. Le sopraelevazioni che si notano oltre il secondo piano sono opera del primo Novecento, con evidenti scopi commerciali. E’ da precisare altresì che l’abbassamento del livello delle strade di Catania, negli anni 1870-71 voluto dal governo nazionale con obiettivi eminentemente speculativi (perciò controversi e contestati all’epoca), ha modificato il disegno della facciata. Sia il portone centrale d’ingresso che quelli laterali di via della Palma e via Santa Barbara sono stati abbassati; i primi due rimangono tuttora sovrastati da finestroni ovali detti ad occhio di bue, l’ultimo ha un balconcino.
L’autore del palazzo può essere identificato, per lo stile e per le modalità di costruzione e per i materiali, nonché attraverso indizi raccolti in svariati documenti, in Francesco Battaglia, forse il più grande maestro costruttore della Catania settecentesca, architetto di Casa del Principe Ignazio Paternò Castello di Biscari nonché dei Benedettini. E’ anche possibile che l’opera sia in parte del figlio Antonino, rifinita altresì dal nipote Carmelo Battaglia Santangelo (dallo stile più classico: sua è la sistemazione del finestrone centrale della incompiuta facciata del Tempio di San Nicolò la Rena, ove lavorarono il cugino e lo zio): però i riscontri che avrebbero permesso di attribuirne con sicurezza l’autenticità furono purtroppo distrutti dall’incendio che devastò il Municipio, quindi l’Archivio Comunale, nel dicembre 1944. Al Battaglia si risale per molte ragioni, non ultima delle quali il ‘vederlo’ fisicamente all’opera non solo nella edificazione del complesso monastico dei Benedettini, ma anche per l’attiguo monastero della Trinità, nonché per ogni opera di architettura religiosa e civile dei dintorni che abbia maestà e tipologia, unitamente ai componenti della sua famiglia, il genero Stefano Ittar, i parenti Amato, i Biondo tagliapietre oriundi di Messina (Federico De Roberto, nella monografia del 1907 su Catania, lo chiama Francesco Battaglia Biondo).
Così la proprietà del palazzo è –sinché non si potranno effettuare approfondimenti attraverso documenti dal difficilissimo reperimento, qualora ancor vi siano- negli anni della edificazione, nebulosa: ma si può affermare che la committenza debba esser stata affatto nobiliare, di giurista o uomo di Chiesa, data anche la vicinanza e la similitudine plastica con il monastero delle suore benedettine della Trinità: nonché da deduzioni indirette avute consultando i regesti dell’Archivio di Stato di Catania, degli anni 1693-95.
Il nome che si attribuisce è quello degli ultimi proprietari dell’edificio unificato prima della divisione, i coniugi Pace (importatore di mercanzie varie in Catania) e Fassari, in specifico donna Irene, a capo nei primi del Novecento dell’Unione Femminile Catanese ed amica di Mario Rapisardi (che così le scriveva: "…non posso che lodare gli intenti pietosi di codesta istituzione ed augurarne pronti ed efficaci gli effetti… la bellezza della donna è uno dei più generosi spettacoli che la natura concede ai mortali…", 16 maggio 1909), la quale avendo perduto un figlio, si dedicò alla istruzione delle fanciulle.
La facciata del palazzo ha nel piano nobile otto balconi di stile classico sormontati nell’architrave da un rettangolo simbolico, forse in origine destinato ad essere decorato (solo uno di essi, al centro, ha degli stucchi floreali di stile Liberty), ariosi ma austeri come si addiceva al periodo, di cui solo i tre centrali –in una disposizione originale- sono racchiusi da unica ringhiera, rimanendo tre singoli verso ovest e due verso est: si rammenti che il piano terrano era nel Settecento quel che oggi si classifica per primo. Di notevole impatto scenico è il lunghissimo balcone del secondo piano, originalissima idea che può datarsi tra la fine del Settecento o primo Ottocento, per infoltire il numero degli spettatori alla festa più importante della città: infatti sino al 1926 da questo tratto di via Vittorio Emanuele, sino alla vicina ed allineata, nel piano detto della Consolazione o di San Cosimo, oggi piazza Machiavelli, chiesa di Sant’Agata alle Sciare (ove si svolgeva l’offerta votiva) saliva il fercolo di Sant’Agata, il giorno 4 di febbraio, nell’ambito del cosiddetto giro esterno. Fino al 1875, allorché lo Stato le fece sloggiare, le Benedettine della Trinità come gli Agostiniani più giù, erano allietati come i laici dal passaggio della processione agatina la quale toccava le dimora degli ordini ecclesiastici più importanti, ed i luoghi sacri.
Il palazzo Fassari Pace ha avuto, sempre nel piano nobile, una connessione interna delle stanze che lo compongono creando una ‘fuga’ scenica piuttosto singolare. Ciò sino agli anni Trenta del XX secolo, allorquando la proprietà lo divise in appartamenti, ‘tagliati’ in modo diverso e secondo discutibili criteri. Da allora l’edificio, dalle belle lesène di pietra calcarea come le cornici dei balconi, dalle paraste possenti degli angoli che svettano al sole del mattino e s’inondano dell’oro del tramonto, soffre di quella senescenza inevitabile, comune a quasi tutti gli edifici del Settecento catanese (si pensi a palazzo Reburdone, anche questo opera di Francesco Battaglia e specularmente affacciato sempre su via Vittorio Emanuele all’oriente angolando con piazza dei Martiri o piano della Statua, il quale ospita al suo interno sia uffici dell’Università, sia un modesto alberghetto affittacamere), non conservati nella loro interezza e in modo dubbio ammodernati. La sua presenza nondimeno ancor solenne nel contesto della antica strada del Corso, arricchisce il barocco catanese, di stile classico ed echeggiante spesso quello romano, donando nonostante il decadimento, quel profumo antico di segreta solennità.

martedì 12 maggio 2009

Il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi


Presentiamo al Lettore, nella linea tracciata da codesto blog, il poemetto "La cometa" di Mario Rapisardi, trascritto dal volume unico di "Poemi liriche e traduzioni" edito dal Sandron nel 1911 (edizioni dei "Poemetti" erano già apparse nel 1902 e nel 1908). In esso è sintetizzata la concezione etica e scientifica della poesia rapisardiana: nel passaggio dell’astro (la cometa detta di Halley fu visibile da noi nell’aprile 1910; l’attesa suscitò controverse aspettative) egli simboleggia la vindice Giustizia, contra le turpi nefandezze umane nonché, nel solco della filosofia lucreziana del cui capolavoro fu insigne traduttore, il dissolversi panteistico del Tutto nell’immenso oblìo. Non mancano le frecciate anticlericali, né il tono autobiografico: Antero è il poeta, ed Egle l’amatissima compagna Amelia, che con lui visse sino alla fine, di schiatta nobile. Il Riccò citato altri non è che il noto astronomo Annibale Riccò, collega ed amico del Rapisardi all’Università di Catania, il quale fondava, e dirigeva in quel tempo, l’osservatorio astronomico etnèo. L’istantanea fotografica ‘familiare’ che qui si allega, riproduce il Rapisardi e l’Amelia che legge, nel salotto della casa del Borgo, inizi del Novecento. In primo piano la famosa pelle di leopardo, che il Vate con eccentricità amava tenere nella stanza, la quale risulta dispersa, poiché non figura tra i cimeli (la tenda che si intravvede è ivi) serbati nella stanza-museo della biblioteca Civica nell’ex monastero benedettino.
(Nota di FGio)






La Cometa

I
A qual parte del cielo erano intèse,
o Riccò, le tue lènti, allor che al nostro
sguardo si fe’ l’orrendo astro palese?
E dov’era allor fiso il pensier vostro,
spiatori dei cieli, se inaspettato
raggiò sì presso a noi l’aereo mostro?
A Sirio opposto, a Orìon da lato
La chioma irta ei diffuse, e fu di strane
Apparenze ad un tratto il ciel turbato:
torbido fiammeggiò l’etereo Cane,
e di solfureo vel cinta offuscossi
del gigante Algebàr la spada immane;
bianco si fece Aldebaràn, che i rossi
crini mirando usurpar l’etra, a’ due
suoi compagni ristretto in mar calossi.
Come al sopravvenir d’occulta lue
Trema il vulgo mortale, e tutte a’ lesti
Piedi confida le speranze sue,
atterrito così per le celesti
regìoni ad un’ora il siderale
popol fuggire e impallidir vedresti.
Qual core allor fu il tuo, gregge mortale,
cui sapere e ragion tardi soccorre,
ma all’errore, al terror sì pronte hai l’ale?
Esce a’ lidi ansioso, a’ monti accorre,
e muto, intènto nel funereo raggio,
alle porte urge dell’aerea torre,
su la cui cima imperturbato il saggio
scruta dell’igneo drago il raro e il denso
e l’orbe informe e l’inegual viaggio;
e se dismaga il basso error, l’immenso
terror non vince delle scarse menti,
a cui più che ragion comanda il senso:
mirano spazìar per le silenti
aure il nemico, e arcani influssi e morbi
novi e stragi fraterne ecco imminenti.
E quant’ei più si appressa e di più torbi
Sguardi infetta le stelle, e più gli umani
Intelletti si fan trepidi ed orbi.
Di rosse spade, di serpenti strani
Munito il corpo mostruoso pende
Vasto e sanguigno per gl’impervj vani.
Oh spaventosi aspetti, oh notti orrende,
quando una pioggia di fulminee stelle
Vibra e’ dall’arco il nostro globo offende;
e ad ogni umano argomentar ribelle
altre vie s’apre, ed il mutevol crine
in coda allunga o in fulvi orbi convelle!
Non questo della terra è dunque il fine?
Non la minace profezia, che all’empie
Tracotanze dell’uom segna un confine,
per te, sterminatore angiol, s’adempie?


II
Come su le spettrali ombre d’un bosco
Pendulo su l’etnée balze, la luna
Roggia e grande campeggia all’aer fosco:
sorgon su dalla terra umida e bruna
vaporosi fantasmi, e rubiconde
l’ombre si fan che l’emisferio aduna;
apron gli antri le bocche atre e profonde,
e pavidi tremori e dètti strani
ricambiando si van l’aure e le fronde:
così tetro grandeggia a gli occhi umani
il dragon ruinoso, e i petti molli
di sogni inonda e di spaventi arcani.
Empj dètti, opre ree, proposti folli
Odon campi e città, dove che raro
Il popolo più erri e più s’affolli.
Ma chi fitto ha nel core il tarlo amaro
Del tardo ripentire, e chi del punto
Vano in che vive ha l’avvenir più caro;
chi in turpi fatti al duro secolo giunto
l’ora del gran Giudicio appressar vede,
pio per terrore e per viltà compunto,
dell’insolito altar gittasi al piede,
e al Dio, che già sprezzò, con disperati
pianti pietà per sé, pe’ suoi richiede,
Suona d’umili preci e d’ululati
La reggia e il casolar: suonan le meste
Vie d’un salmodìar mesto di frati.
Pur non poche vi sono alme rubeste,
che nel periglio estremamente audaci
a tutto osare, a tutto oprar son preste:
indi un pazzo sitir d’oro e di baci,
e ferali tripudi e nozze strane,
vendette orrende e generose paci.
Taccion le leggi, o son derise e vane:
tutti adegua il terrore, e ad una mensa
con la plebe il signor divide il pane;
cade vinta un dì l’opera immensa:
non trarre oro dal sangue osa il Giudeo,
non i solchi ad aprire il villan pensa.
Allor fu che felici al tempo reo
Si strinsero d’amore Egle ed Antero,
ella di regio sangue, ei di plebeo.
Ben ella avea nel verginal pensiero
Idoleggiato il fosco vate, a cui
L’arte abbellìa d’alte lusinghe il vero;
ma ostia rassegnata al cenno altrui
nello splendor d’una regal magione
giorni ella visse inonorati e bui;
dall’amor calpestata or la ragione,
lascia i palchi dorati, e in umil tetto,
nelle braccia di lui tutta si pone.
Oh inaspettato a lor dì benedetto,
che nel tremore universal beati
bocca unirono a bocca e petto a petto!
Tutti allor memorando i giorni ingrati,
le pugne vane e la fatal minaccia
che alla progenie rea vibrano i fati,
all’imminente mostro erto la faccia
illuminata da una fiera Idea,
trasumanato nelle amate braccia,
vaticinj ed amplessi egli mescea.


III
"Ascolta, o ciel, della mia voce il tuono;
porgi, o terra, al mio dir le orecchie intente:
odimi, o notte: la Giustizia io sono.
O morituri, a cui l’ora dolente
L’animo pervicace umilia e scema,
e voi che in traccia di piacer, la mente
travagliate errabondi all’ora estrema,
tutti ascoltate la funerea voce
che su voi piomba, e ognun ne pianga e frema.
Io da voi nata e da voi posta in croce,
ecco libero il braccio, e in voi dall’alto
zolfo avvento e bitume e fuoco atroce;
ecco le schiere mie lancio all’assalto
de’ valli tuoi, plebe gaudente, e mozzo
le tue moli di bronzo e di basalto.
Stolti! Assai non vi fu l’aver di sozzo
Bacio sconciato il mio virgineo seno,
e il mio corpo tuffato in luteo pozzo;
voi di sangue mi avete e di veleno
abbeverata, e delle case mie
fatto avete e di me traffico osceno.
A che valse che poche anime pie
Visser fide al mio culto? Un branco infame
Le schernì per le reggie e per le vie.
Ma così paga sia l’onesta fame
C’hanno di me l’austere anime, io tosto
Di voi, stolti, farò stoppa e letame!
Come della prigione in cui fu pòsto
Spezza fervido i cerchj, e dalle aperte
Doghe prorompe gorgogliando il mosto;
accorre il vinajuol tardi solerte
nel chiuso loco, e dall’afror percosso
in ebbrezza mortal giù piomba inerte:
così lo sdegno mio spumante e rosso
sfrenasi dal mio petto, e fulminato
primo ne andrà chi più si tien colosso!
O di neri avvoltoj stormo malnato,
che dell’umanità stolida a’ danni
fra l’aere di Gesù vegli in agguato;
o di folli signori e di tiranni
imbestiata genìa, che treschi e ruzzi
e a te gloria procacci, al mondo affanni;
geldra rea, che in mio nome i ferri aguzzi,
e leggi ordendo, anzi vendette, impregni
d’odio la vita, e le mie nari appuzzi;
stuol venale d’eroi, che i torvi ingegni
abbandonando a la ragion dell’armi,
ire, rapine e fratricidj insegni;
scribi che in prose abiette, in turpi carmi
schernite a prezzo Aristide e Catone
per votare a Tersite onor di marmi,
ecco, irrompe su voi la mia ragione,
e tra le mèssi all’opra altrui rapite
gira in cerchio ed avventa il suo tizzone!
Ecco, scendo tra voi, torme aborrite:
al passo mio, che nella notte romba,
tentennan come canne aule e meschite;
ecco, già scocca la siderea fromba,
e sossoprando le terracquee grotte
da l’uno a l’altro polo apre una tomba.
Scatena i flutti il mar simili a frotte
D’ippopòtami urlanti, e nel vorace
Gorgo le razze e i continenti inghiotte;
ma vinto anch’ei da la solar fornace,
fervendo sfuma; e tu per l’universa
vacuità cercando invan la pace,
fatta pomice, o terra, andrai dispersa!"

Mario Rapisardi

mercoledì 6 maggio 2009

Torni la Luce


Premettiamo di provare estremo fastidio trattando di codesti argomenti, che ci illudevamo di credere confinati nelle cronache della Historia Augusta, del basso Impero, nelle pagine più colorite di Tacito, nelle Satire di Giovenale, nelle storie bizantine di Procopio. Oggidì si travalica il segno. Per cui a coloro che son liberi e di buoni costumi è necessario, anche per la dignità di quel tricolore che si deve additare, nel senso dell'Unità italiana, ai propri figli, vergare parole dure e chiare. Non scritte. "A' megghiu parola", ha riportato il dottor Falcone nel suo libro, "è chidda cà non si dici": antico proverbio siculo.
Queste le straordinarie frasi dette, e riportate il 3 maggio, dalla signora Vernica Lario, nome artistico di Miriam Bartolini, consorte in via di separazione e poi divorzio (si sa che l'iter in Italia è lungo) del presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi: "Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… perché la ragazza minorenne la conosceva prima che compisse 18 anni: magari fosse sua figlia…". "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile". Tali affermazioni, ben più della smentita del presidente, trasmessa la sera del 5 maggio in diretta tv su Rai 1, hanno una valenza politica, sociale, se ci si permette Etica e psicologica, molto grave. Infatti la seconda di esse è stata massimamente ignorata dalle televisioni e dai giornali asserviti ai grandi gruppi finanziari ed industriali. In clima di notevole recessione sociale, non è possibile stendere il classico velo pietoso. Occorre indagare colla luce delle verità che provengono dal profondo, di ognuno di noi. Verità parziali per forza di cose; sfaccettate, impalpabili. Nessuno le possiede in toto.
Bisogna nondimeno dare atto a pochi ma coraggiosi, e famosi, colleghi giornalisti di tenere desta l'attenzione su codesto problema che, se si fosse presentato nelle proporzioni nelle quali è in qualunque altra Nazione d'Europa e delle Americhe, avrebbe come minimo provocato le dimissioni dell'accusato. Tra costoro, oltre il valente Michele Santoro, è bene rammentare il collega Marco Travaglio, il quale fra l'altro ha ricevuto qualche giorno fa il premio per la libertà di stampa dalla associazione Djv dei giornalisti tedeschi, ed in tale occasione ha dichiarato a Berlino che in Italia la libertà di stampa "esiste sulla carta, ma non molto sulla carta stampata e quasi per nulla sulla televisione", manifestando uno stato di fatto gravissimo per la democrazia, il quale tuttavolta trova le scaturigini nella anomala situazione nella quale la Nazione si trova. Forse, da noi non accadrà nulla. In ogni caso, non si potrà dire che siamo rimasti zitti.
Non esprimiamo commenti, solo un riferimento storico, privo di attinenza coi fatti odierni, epperò a nostro avviso utile onde far riflettere. Il 29 luglio del 1943, in piena tragedia nazionale, appare nel diario del generale Paolo Puntoni, ajutante di campo del Re Vittorio Emanuele III (il Duce era stato sostituito quattro giorni prima dal Maresciallo Pietro Badoglio), la seguente riflessione del Sovrano, confidata al suo collaboratore: "Per me, ha detto Sua Maestà, molta colpa è di quella donna. A sessant'anni non si possono commettere certe intemperanze! -Uscendo poi dal suo consueto riserbo, mi ha citato, ridendo, un proverbio napoletano che suona press'a poco così: Quando per amore si va in gloria, la capa di sopra perde 'a memoria" (pag. 149 del vol. "Parla Vittorio Emanuele III" di P.Puntoni, Bologna 1993). "Quella donna" era la Claretta Petacci, che seppe morire con coraggio, assassinata barbaramente, accanto all'uomo che amava; persino donna Rachele ha per lei parole di perdono e di companto, nel libro delle sue memorie.
In fine, rammentiamo le parole che Giuseppe Garibaldi,la cui adamantina coerenza ideale splende intemerata, rifiutando di sedere in Parlamento nel 1880, scriveva a modo di testamento ai suoi seguaci: "Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non quella miserabile all'interno ed umiliata all'esterno, ed in preda alla parte peggiore della Nazione". Vi sono, lo crediamo fermamente, in Italia uomini d'onore e d'onestà i quali possono affermare col personale esempio, quel che disse il selvaggio nella volterriana Storia di Jennì: "Il mio Dio è là-, e mostrò il cielo; -la mia legge è qui dentro, e si mise la mano sul cuore", senza circonlocuzioni dogmatiche o barocche. Per tali motivi, purificate le acque dalla lutulenza, tornerà anche nella Patria nostra, la Luce.

mercoledì 22 aprile 2009

Sul tempio - terme della Rotonda



Nel 1997 lo studioso Francesco Giordano, autore di questo blog, per i tipi dell'editore Greco ha pubblicato la monografia, sinora unica e di carattere storico scientifico nonché ricca di documenti, "La Rotonda. Mito e verità di un tempio catanese" (per sua scelta, non percependo alcun compenso); il libro, che è in commercio tuttora, ha avuto ampio riconoscimento anche da enti pubblici, ed è presente in diverse biblioteche italiane ed estere. Se ne riproduce qui la copertina, la cui foto è del medesimo autore,
Il 23 febbrajo 1997 la Chiesa di Santa Maria della Rotonda ha ricevuto, per volontà di Francesco Giordano, la visita di una delegazione religiosa capeggiata dall'Esarca della Chiesa Cristiana Ortodossa d'Italia, Metropolita Ghennadio, unitamente all'allora Console di Grecia in Catania Mefalopulos ed al presidente dell'Associazione Siculo Romena Lo Meo. I convenuti hanno ivi intonato una preghiera rivolta ad oriente, di cui rimane testimonianza filmata, riconsacrando virtualmente il tempio al culto della Vergine Partènos, al quale in origine era stato dedicato.
Apprendiamo che recentemente è stato presentato il volume collettaneo, edito nel 2008 dalla Regione Siciliana, a cura di M.G.Branciforti e C.Guastella, "Le terme della Rotonda"; in esso alcuni studiosi han raccolto i risultati della campagna di scavi ivi svolta negli ultimi anni. Leggiamo dalla cronaca locale che "i lavori di scavo e di studio eseguiti nell'ambito del Por Sicilia 2000-2006" hanno avuto "un investimento di 740.000 euro al netto dei ribassi d'asta" (La Sicilia on line 18 aprile '09). Nel constatare, per una di quelle evidenti sviste dovute forse alla fretta di realizzazione, che nella bibliografia di codesto libro, l'opera anzidetta del Giordano non è citata, si plaude alla iniziativa che in ogni modo ha il merito di far conoscere uno dei luoghi più belli, e assaj poco noti, della Catania antica, dal fascino irresistibile.
La precisazione è stata pubblicata a pagina 36 del quotidiano "La Sicilia" il 23 aprile del corrente anno 2009, nella rubrica "Lo dico a La Sicilia".

martedì 21 aprile 2009

La poesia Mors et vita di Mario Rapisardi letta da Francesco Giordano

Presentiamo una video lettura della poesia Mors et vita, di Mario Rapisardi, dalla raccolta delle "Poesie religiose", edita nel volume unico per i tipi di Sandron, 1911. La voce è di Francesco Giordano. Il sottofondo è la nota sinfonia n°5 in do min. op.57, II movimento, di Ludwig Van Beethoven, il musicista prediletto del Vate catinense, nella esecuzione (30 giugno 1943) della Filarmonica di Berlino diretta da W.Furtwàngler. La fotografia risale al 1889, allorché il Poeta era quarantacinquenne.

venerdì 17 aprile 2009

Mario Rapisardi e la musica


Sul rapporto fra Mario Rapisardi, la musica ed i musicisti, mentre è acclarato che molto vi sarebbe da scrivere sulle connessioni tra l'opera poetica rapisardiana e gli echi musicali del tempo, si può affermare senza tema di smentite che le preferenze del Vate etneo erano orientate verso l'alma favilla di Ludwig Van Beethoven, in modo prevalente ma non esclusivo. Leggiamo i documenti.
"Tu intanto che fai? Che pensi? come passi le lunghe ore della nostra lontananza? Occupati quanto più puoi: suona spesso e molto, specialmente Beethoven e Mendelssohn. Così ti parrà esser vicino a me: tu sai che io adoro la musica di quei due sovrani ingegni..." Mario Rapisardi ad Amelia (sua compagna di vita, dopo la separazione dalla moglie Giselda), da Roma 28 sett. 1886, albergo della Minerva (In "Epistolario di M.Rapisardi" a c. di A.Tomaselli, Catania 1922, pag.232). Pertanto anche Felix Mendelssohn era tra i prediletti del Poeta. Risulta da molte fonti che una delle qualità che il Rapisardi apprezzò massimamente nella bionda fiorentina d'estrazione nobiliare polacca, che lo seguì in Catania dopo le note vicende familiari, era proprio la sua abilità pianistica.
Ancora egli ribadisce all'amico carissimo Calcidonio Reina "Di questi ultimi giorni sono stato in vena, e ho scritto qualcosa che non ti spiacerà. Quanto più mi stacco sdegnoso da questa generazione che non comprendo e che non mi comprende, tanto più l'anima s'inalza a l'Ideale, e i miei versi perdono i contorni e si confondono con la musica. E in musica vorrei scrivere. Oh divino Beethoven! Sentirai". (in "Lettere di M.Rapisardi a C.Reina" a c. di A.Tomaselli, Palermo 1914, pag. 120). Codeste lettere private dirette ai più cari affetti dimostrano quanto il Rapisardi identificasse in certo senso la sua vena poetica colle melodìe beethoveniane. Inoltre era noto che l'Amelia soleva intrattenerlo, nella casa "aerea" del Borgo, onde dilettarne l'animo, al pianoforte sonando musiche del genio di Bonn. Oltre le testimonianze degli amici, v'è una istantanea fotografica che tale momento immortala: è quella che qui si pubblica, databile nell'ultimo decennio del XIX secolo, molto probabilmente del fotografo catanese Grita, amico del Vate. Un quadretto tipico dell'ottocento siciliano, per cui "l'arredamento della casa di Mario Rapisardi era quello del più modesto borghese", scrive in uno dei suoi deliziosi articoli sentimentali, Saverio Fiducia. Ora alcuni di quei mobili e quadri sono nella 'stanza Rapisardi' ubicata nei locali della Biblioteca Civica nell'ex monastero Benedettino.
In una occasione particolare Mario Rapisardi, trovandosi in Napoli, fu festeggiato dagli amici e, certo su suo suggerimento, l'Amelia Poniatowski Sabèrnich, che lo accompagnava, suonò in pubblico proprio Beethoven. Così la cronaca di quell'estate del 1888: "Iersera nella luminosa sala pompeiana dell'Hòtel Vésuve, tra un fine pubblico cosmopolita, era a fargli festa una eletta schiera di artisti con a capo per autorevole anzianità il comm.Saverio Altamura... Mario Costa cantò delicatamente, come suole, le canzoni italiane, francesi, napolitane del suo abbondante, copiosissimo repertorio... Nadina Bulicioff, che è pur lei per pochi giorni ospite dell'Hòtel Vésuve e che con gentilezza pari al talento aveva organizzata la piccola serata musicale in omaggio al poeta, volle dare al programma di questa serata le preziose attrattive della sua voce e della sua arte. Cantò, non c'è bisogno di dire come nè fra quale entusiasmo, parecchi pezzi di Gounod, di Meyerber, di Bizet. L'Amelia suonò con uno slancio, un colorito, una agilità, un sentimento ignoti a molti pianisti di professione un'ouverture di Weber, una sonata di Beethoven: musica classica, stupendamente interpretata, che suscitò gli applausi più vivaci ed entusiastici. E poi Costa daccapo: Menotti Frascati cantò Scetate... la signorina Sofia Frascani cantò col Costa il duetto E vota e gira. Ad ora tarda si finì con un coro e con una lunga unanime acclamazione ch'era pure un ultimo cordiale saluto all'amico, al poeta..." (ne "Il Pungolo", Napoli 17-18 agosto 1888). Il Rapisardi nondimeno, più che compiacersi delle feste, se ne lamentava con l'amico Calcidonio: "... se io non mi fossi mosso di qui, penso, sarebbe stato meglio: non avrei avuto le accoglinze oneste e liete, e le feste con guarnitura di Bulicioff, ma avrei goduto della tua compagnia fino a novembre..." (a C.Reina, 27 ago.1888, in "Epistolario..." cit. pag. 271). Evidentemente egli vedeva nel cuore dei molti, ed apprezzava la rara sincerità dei pochi.
Al musicista catanese F.P.Frontini, che musicò sue liriche e che egli raccomandava (lettera del 23, 1904: "...l'opera della commissione potrà essere molto agevolata da quei cittadini... fra i quali mi permetto rammentare alla SV. i signori Guseppe Giuliano, F.P.Frontini...") al Sindaco di Catania per la Commissione belliniana che s'interessava allora all'acquisto della casa natale del 'Cigno' etneo, scriveva altresì: "Tutte le arti, mio caro, non soltanto la musica, vano a rotta di collo verso il manicomio, che già spalanca i battenti a riceverle. Rimaner fermo al suo posto contro la furia della pazza corrente, è dovere di chiunque abbia per l'Arte, per la gloria e per l'onore d'Italia un culto disinteressato e sublime...", consigliandogli infine: "guardi il genio di Verdi, sereno fra la gazzarra wagneriana: si andò rinnovando fino all'estrema vecchiaia, ma restò sempre lui, ed ora si gode beato la giovinezza immortale. S'ispiri, senza scoramenti, all'esempio dei grandi; scriva come il cuor Le detta..." (a F.P.Fontini, 9 apr. 1906, in "Epistolario..." cita, pag. 398).
Per concludere, segnaliamo che l'allor giovine musicista trecastagnese Gianni Bucceri (autore della nota Mariedda, del Miles Standish e di Graziella; moriva in dignitosa povertà all'Ospedale Vittorio Emanuele di Catania nel 1953, "sanissimo tra gli ammalati", scrisse Turi Nicolosi) compose un "Inno a Rapisardi", eseguito in pubblico il 22 gennajo 1899 al giardino Bellini, durante l'inaugurazione del monumento bronzeo raffigurante il Poeta, opera del Civiletti (così riferiscono le cronache delle Onoranze al Rapisardi, raccolte nel volume a cura di A.Campanozzi, edito in Catania nel 1899).


Una specie verrà, che da la torma
Nostra, dagli anni e dal dolor contrita,
A più alti destini, a miglior forma
Divinamente inalzerà la vita.
A te, stirpe sovrana, i ferrei nodi
Sciorran gli Enimmi, onde sì fiera in noi
Lasciò la Sfinge i freddi artigli infissi;
Sveleran le Cagioni ultime a' tuoi
Sguardi il semplice ordito, e in nuovi modi
Regnerai con amor cieli ed abissi.


M.Rapisardi, dal poemetto "L'impenitente"



(FGio)

martedì 31 marzo 2009

Ai giusti ed ai peccatori, dal Libro di Enoch


Difficile è trovare delle parole anche solo di veloce commento, riguardo il turbine degli accadimenti che ci stanno travolgendo: la depressione, etica ben più che economica, la quale investe l'Occidente e l'Oriente è la fine di un modello, sbagliato per noi, di società, quello basato sul capitale e sul profitto a tutti i costi, senza rispetto verso la Natura e l'Uomo. Inoltre, l'attuale governo nazionale è sommamente incapace, per non dir altro, di affrontare anche da lunge, la estrema criticità del momento. Non troviamo altre riflessioni, che quelle pronunciate dal saggio Enoch, tratte dal volume "Il libro di Enoch", a c. di M.Pincherle e L.Palazzini Finetti (Faenza 1977), p. quinta, "Il libro delle esortazioni". Come è l'esempio personale a dirigere la volontà, così essa svolgerà la falce della Giustizia:


Ed ora io vi dico, figli miei, amate la rettitudine e praticatela, perché i sentieri della rettitudine sono degni di accettazione,
mentre i sentieri dell'ingiustizia verranno improvvisamente distrutti e scompariranno.
Ed a certi uomini di una generazione i sentieri della violenza e della morte saranno rivelati,
ed essi si terranno lontano da essi e non li seguiranno.
Ed io dico ora a voi, giusti:
non prendete i sentieri della malvagità nè quelli della morte,
e non avvicinatevi a essi, altrimenti sarete distrutti.
Ma cercate e scegliete rettitudine e una vita eletta
e camminate sui sentieri della pace,
così vivrete e prospererete.
E rammentate bene le mie parole nei pensieri dei vostri cuori,
e fate sì che esse non vengano cancellate:
sappiate che i peccatori spingeranno gli uomini a disprezzare la Saggezza,
perché non vi sia posto per essa,
e non lesineranno a ciò nessuna tentazione.
Guai a coloro che creano ingiustizia ed oppressione,
e si basano sull'inganno
perché essi saranno improvvisamente abbattuti,
e non avranno pace.
Guai a coloro che costruiscono le loro case col peccato;
poiché tutte verranno divelte dalle fondamenta,
ed essi verranno trafitti a fil di spada.
Guai a voi, ricchi, poiché avete posto la vostra fede nelle ricchezze
e dovrete separarvi da esse
poiché non avete ricordato l'Altissimo nei giorni della vostra prosperità.
Voi avete commesso azioni blasfeme ed ingiuste,
e siete ormai pronti per il giorno dell'eccidio,
dell'oscurità e del grande giudizio.
Perciò io parlo e vi dichiaro:
Colui che vi ha creato, vi abbatterà,
e per voi non vi sarà compassione,
ed il vostro Creatore si compiacerà della vostra distruzione.
Ed i giusti, in quei giorni, saranno rimprovero vivente per i peccatori e gli empi.

venerdì 27 marzo 2009

La poesia Felicitas di Mario Rapisardi letta da Francesco Giordano

Ci permettiamo di proporre una video lettura della poesia Felicitas, di Mario Rapisardi, presente nella raccolta definitiva delle "Poesie religiose", edita nel volume unico per i tipi di Sandron, 1911. La voce è di Francesco Giordano. Il sottofondo è la nota sinfonia n°5 in do min. op.57, I movimento, di Ludwig Van Beethoven, il musicista prediletto del Vate catinense, nella esecuzione (30 giugno 1943) della Filarmonica di Berlino diretta da W.Furtwàngler. La fotografia fu scattata al poeta, sessantasettenne e già ammalato, nell'aprile 1911, "sul terrazzo, presso il roseto" (Tomaselli) della casa del Borgo, in Catania, ove visse negli ultimi anni.

martedì 17 marzo 2009

Stemma di Francesco Giordano


Sin dall’antichità, la figurativa umana si esprime per simboli. Siccome l’uomo ha in sé l’istinto della conoscenza e quello della guerra, invalse l’uso di pingere nelle armi i propri simboli: donde l’abitudine di apporli nello scudo, arma di difesa e protezione. Lo stemma, familiare (ovvero borghese) o gentilizio, altro non è che metafora dello scudo, antico e medievale.
Celeberrimo lo scudo di Achille, epifania di ogni araldica e visione simbolica e filosofica del mondo: Teti divina lo commissiona insieme all’elmo ed alla lorica, a Vulcano il dio fabbro e del fuoco, a causa della perdita delle armi del Pelìde trafugate dai Teucri, dopo la morte di Patroclo che le indossava. La descrizione di codesto scudo, occupa ampia parte del XVIII canto dell’Iliade omerica, divenendo ierofanìa sacra, axis dell’universo di cui Achille è il fulcro, mitopoieticamente:


"… primamente
un saldo ei fece smisurato scudo,
di dedaleo rilievo, e d’auro intorno
tre bei fulgidi cerchi vi condusse;
poi d’argento fuor mise la soga.
Cinque dell’ampio scudo eran le zone;
e gl’intervalli, con divin sapere,
d’ammiranda scultura avea ripieni.
Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo
E il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, e gli astri diversi, onde sfavilla
Incoronata la celeste volta,
e le Pleiadi, e l’Iadi, e la stella
d’Orion tempestosa, e la grand’Orsa,
che pur Plaustro si noma. Intorno al polo
ella si gira ed Orion riguarda,
dai lavacri del mar sola divisa.
Ivi, inoltre, scolpite avea due belle
Popolose città…
Vi sculse poscia un morbido maggese
Spazioso, ubertoso e che tre volte
Del vomero la piaga avea sentito…
Altrove un campo effigiato avea
D’alta messe già biondo…
Seguia quindi un vigneto oppresso e curvo
Sotto il carco dell’uva…
Di giovenche una mandra anco vi pose
Con erette cervici…
Facevi ancora il mastro ignipotente
In amena con valle una pastura,
tutta di greggi biancheggiante, e sparsa
di capanne, di chiusi e pecorili.
Poi vi sculse una danza, a quella eguale
Che ad Arianna dalle belle trecce
Nell’ampia Creta Dedalo compose…
Il gran fiume Oceàn l’orlo chiudea
Dell’ammirando scudo
"
(Trad. V.Monti, vv.663-842)


Si lascia ad ognuno l’interpretazione esoterica di quei numeri non casuali segnati dal poeta cieco di Chio, nella descrizione immaginifica dello scudo; il quale, nel canto successivo, egli precisa insieme alle altre armi ben composte da Vulcano, emettere un suono "che terror mise" agli stessi Mirmidoni, i compagni di Achille, tanto che fuggirono: il che sta a dire la potenza divina della musica delle sfere, di cui millenni dopo Isacco Newton si occupò.
La radice sanscrita, del resto, del termine greco ‘stemma’, donde il nostro significato di arma araldica, è ‘render fermo, saldo, compatto’. Da qui la significanza gnostica, se ci si passa il termine. Il deflusso verso l’araldica appare a questo punto, evidente e scontato. "Gli stemmi sembrano cosa affatto moderna e medioevale", argomenta alla voce relativa P.Guelfi Camaiani, nel suo "Dizionario araldico", 3°ed. 1940, "eppure già se ne trova vestigio nell’antichità", citando Cesare che avea una farfalla ed un granchio, Pompeo un leone con spada, Augusto una sfinge; ed aggiunge: "ma gli stemmi moderni, di colore stabilito, e impronta e inquartature, ereditarii ne’ suggelli, nelle divise e sulle bandiere, e che appunto si dissero arme o scudi perché su questi soleansi disegnare, si introdussero non prima del secolo XI, e massime in occasione delle crociate". Pressappoco nel medesimo periodo nasceva l’Araldica, scienza dello studio de’ blasoni.
Nel XXI secolo, come jeri nel XX, essa appare non diremmo negletta, ma studiata dagli appassionati. E’ forse il suo destino. Tuttavolta, benemeriti istituti e centri di studio, ne perseguono la conservazione nella tradizione, epperò, come deve essere nel tempo della tecnologia informatica, adeguandosi con intelligenza a’ nuovi modi di comunicazione.
Lo stemma, familiare (o borghese) e gentilizio di Francesco Giordano, è nel solco della predetta istoria. La famiglia, nel ramo siculo, è d’ascendenza normanna (vedasi la Storia dei Musulmani in Sicilia dell’Amari, col Giordano figlio del Gran Conte Ruggero d’Altavilla) e di antico ceppo romano, trapiantato in Napoli nel XVI secolo: ivi ebbe da Re Carlo III dopo la conquista del Regno delle Sicilie, poiché ivi infeudata e possidente, il titolo di Duca dell’Oratino, una borgata (ora comune) del Molise. Il titolo fu riconosciuto dalle LL.MM. i Re d’Italia, fino a Vittorio Emanuele III di Savoja, al ramo principale; Francesco Giordano, che discende da quest’ultimo, non ha chiesto sinora all’attuale Casa Savoja il riconoscimento formale di esso. Anche perché la Repubblica Italiana, non del tutto a torto nella sua ispirazione ‘socialisteggiante’, come è noto dalla XIV disposizione ‘transitoria’ della Costituzione, non riconosce i titoli nobiliari (e quindi, secondo i giuristi del settore, neppure tutela gli stemmi, se non quelli di città ed istituzioni dello Stato). Del resto, l’essere monarchici (come l’essere repubblicani, per esempio nella concezione degli Stati Uniti d’America), jeri come oggi, è un sentimento, prescindente da ogni steccato, opinione, discrimine: il riferimento reale nonché ideale rimane il Sovrano di Gran Bretagna, attualmente S.M. Elisabetta II, Capo del Commonwealth. Pertanto Francesco Giordano usa, all’occorrenza, il titolo di Barone di Sealand, concessogli dal Principato omonimo sorgente di là dalle acque territoriali del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord (da cui è implicitamente riconosciuto, giusta una sentenza di quella Magistratura), noto per la sua eterodossa creazione nel 1967 nonché per la creatività (recentemente è stato concesso il titolo di Barone di Sealand al Dalai Lama).
Pare qui utile precisare che il possesso e l’uso di stemmi, come si sa dalla folta pubblicistica araldica degli stati d’Europa, monarchici e repubblicani, nonché dai popoli delle Americhe, è prerogativa diffusa più fra i borghesi non detenenti titoli gentilizi, che tra questi ultimi: così fu per esempio in Italia, a’ tempi dell’Alighieri; così è in gran parte del mondo, attualmente. Rafforza la questione l’intiera araldica vaticana: escludendo la numerosissima pletora di ecclesiastici minori che dal popolo pervennero ai fastigi delle alte cariche, se vi fu il Principe Pacelli, avente diritto al titolo ed allo stemma in quanto tale, divenuto Sommo Pontefice col nome di Pio XII, il successore Giovanni XXIII, figliolo di contadini ed orgoglioso di esserlo, si fregiò di augusto stemma; così i successori, tra cui il figlio dell’operaio socialista Luciani, poi splendente Papa Giovanni Paolo I, l’ex operajo della Solvay Giovanni Paolo II, e l’attuale Santo Padre, figliolo di agricoltori, Benedetto XVI. L’equazione stemma-nobiltà non è automatica, anzi sovente appare storicamente errata, se non fuorviante, ove letta in ampio e lungo contesto storico. V’ha da aggiungere che lo stemma negli ultimi secoli fu legato al possesso del feudo, in particolare nel sud dell’Europa (in Sicilia in particolare): era, ed è, la terra che dona in certo senso spiritualmente, il diritto a fregiarsi di esso. Come accade per motivi storici, pur giocando sull’equivoco lessicale (vedasi i "lord" ed i "laird" scozzesi) nel Regno Unito anglico.
Non si vuole qui spiegare la simbologia dello stemma di Francesco Giordano, essendo un segreto, come tale incomunicabile. Si afferma solamente che le figurazioni albergano da secoli nel patrimonio della famiglia. Satis est potuisse videri. Il Centro Studi Araldici, benemerita istituzione (www.stemmario.it) che su Internet rappresenta la massima congerie dei blasoni delle famiglie italiane, borghesi o nobili che siano, e come tale in quanto organizzazione privata costituisce fondamentale registro a tutela di quel bene personale assimilabile al nome (chiarisce la giurisprudenza araldica) che è appunto lo stemma, ha comunicato a Francesco Giordano di aver registrato e protocollato, nelle settimane scorse, il suo stemma secondo la seguente blasonatura:
"Sbarrato ondato d'azzurro e d’argento, con il capo d’oro a due croci sovrapposte, la prima decussata greca scorciata patente a punta di lancia, la seconda greca scorciata trilobata, nere, entrambe vuotate in centro di un quadrato".
Lo stemma di Francesco Giordano si trova online nelle pagine del sito di Stemmario Italiano.
Piace pubblicare codesto post, nel giorno che commemora il 148° anniversario della proclamazione, da parte del Parlamento all’epoca in Torino, del Regno d’Italia, nella persona di S.M. Vittorio Emanuele II "per grazia di Dio e volontà della Nazione" sovrano della Patria finalmente unita.
Per i Siciliani, ciò è particolarmente importante. "Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi" (G.Tomasi di Lampedusa, "Il Gattopardo").


mercoledì 28 gennaio 2009

Vittorio Emanuele III, un grande Re





La grandezza di taluni uomini straordinari, che in certi tempi della storia umana contribuirono a reggerne le sorti, scrivendo il destino della collettività, si misura certamente col trascorrere del tempo. E in questo frangente, cresce e si amplifica il sentimento del medesimo. Così viene pure accentuata, di molti, la solitudine, la fragilità, parimenti risaltate dalla fermezza e dalla risolutezza che seppero dimostrare nelle ore difficilissime.
E’ il caso del Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Lo spunto, da noi preso a pretesto onde qui brevemente indagare su taluni aspetti della sua figura, è quello del sessantennio dalla morte (28 dicembre 1947, nell’esilio di Alessandria d’Egitto). Pare tuttavolta che la sua lunga vita, nei quarantasei anni di regno della Patria comune, voglia racchiudere molteplici significati, ancor oggi vivissimi nelle carni del popolo italico. Basti riflettere ad un solo dato, banalissimo ma inequivocabile: almeno il 30-40 per cento della attuale cittadinanza, oramai anziana, nacque sotto il suo regno. Si può da ciò arguire quanta influenza ebbe quel periodo, primo cinquantennio del secolo XX, la cui ombra sovrasta e copre la seconda metà, le cui conseguenze –quindi le rendite, in ogni senso inteso il termine- sono anche nel primo decennio del XXI secolo fonte di vita, come senza fallo lo saranno nel futuro.
Un uomo schivo e solitario, fermo e di grande carattere, è descritto il Re d’Italia da molti biografi. Se ci si limita alla pubblicistica quasi ufficiale: i diari e le memorie ne mostrano invece l’aspetto più umano, aperto a scatti a confidenze e riservatezze di carattere personale, alle quali la rigidissima educazione militare, l’aura degli anni in cui nacque, la consapevolezza del ruolo, quel nome che fu del ‘Re Galantuomo’, artefice dell’Unità della Nazione, gli imponevano ed a’ quali non poteva sottrarsi a nessun costo. Sebbene egli non desiderò regnare: vi fu costretto dalla sorte, tragica alfine: le recenti pubblicazioni hanno altresì dimostrato che financo il padre, quell’Umberto I che con giusta causa si è tramandato essere il ‘Re buono’, non amò regnare. Dovette nondimeno ascendere al trono, il che vide come una infausta fatalità, un fardello pesantissimo: infatti, dall’attentato di Passanante (1879) a quello risolutivo di Bresci (29 luglio 1900), fu per lui un percorso aspro. In questo clima, con l’Italia abbattuta dalle delusioni seguite all’entusiasmo risorgimentale (di cui è testimonianza eloquente, fra le altre, il romanzo "I vecchi e i giovani" di Luigi Pirandello), nasceva in Napoli, l’undici novembre del 1869, Vittorio Emanuele, che di Principe della capitale del Sud prendeva il titolo (così l’augusto nipote ed attuale capo di Casa Reale). Era allora la città del golfo, autenticamente la più dolce e bella città d’Italia, ancor splendente del fasto borboniano: i Savoja, recentemente ascesi al Trono della Patria mercé l’opera di unione autoritaria che ebbe in Garibaldi e Re Vittorio Emanuele II, complice silente l’Imperatore francese Napoleone III, i soli veri artefici, intesero così, e ben vi riuscirono, ingraziarsi le poetiche e mirabolanti popolazioni meridionali, da sempre affezionate all’istituto monarchico. Non poteva esservi scelta migliore. Il bimbo, poi ragazzo, crebbe negli agi della sua funzione, primariamente istruito nelle lettere e scienze e soprattutto nell’arte della guerra, come fu nelle tradizioni di una casata guerriera come la sabauda, ove padre (valoroso combattente nella guerra del 1866: il De Amicis ne delinea un ‘cammeo’ stupendo nel "Cuore", ove il papà del Coretti riesce a stringere la mano dell’antico commilitone del quadrato del 49°: pagine da far venire i ‘lucciconi’, ieri come oggi…) e nonno si fecero onore. Era affetto dal complesso della bassa statura, perciò nulla si poté fare, eredità materna: ma seppe, con l’inflessibile guida del precettore, Col.Osio, superare il complesso, seppur non totalmente, come sanno tutti coloro che ne hanno o credono di averne alcuno. Viaggiò per l’istruzione abituale nei quattro continenti, ed apprendeva una miriade di cognizioni, informandosi di tutto e tutto registrando nella sua memoria prodigiosa: fu davvero non un erudito, come alcuni scrissero, ma un autentico uomo còlto, di quella cultura solida e stabile che proviene dalla assimilazione e dalla pratica delle letture colle esperienze della quotidianità. Perciò, da giovine e da vecchio, disprezzava gentilmente i giornalisti, gente dal superficiale nozionismo: non ebbe –se si eccettuano Barzini, Ojetti ed altri pochissimi- certamente torto!
Comandante di corpo d’Armata di Fanteria a Napoli nel 1890, la Regina Margherita ed il Re, prima discretamente poi con insistenza, preoccupàronsi per il futuro della dinastìa, suggerendogli di ammogliarsi, tanto più che il cugino Emanuele Filiberto (alto, più belloccio di lui, mondano quanto egli era schivo da feste e danze) già iva all’altare con Elena di Orlèans, e due anni prima della fin del secolo aveva già Amedeo e Aimone, assicurando la eventuale successione al Trono pel ramo Aosta. Secondo la legge Salica in Italia infatti deve regnare un maschio. Ma il Principe di Napoli, di cui pure si scoprì (tacitato subito) un flirt coll’attrice Tina Di Lorenzo, non voleva ammogliarsi che per amore. Pretesa assurda per un Principe: la madre, cugina del padre, maritata come quasi tutti in famiglia per ragion di stato (infatti fu infelice matrimonio, preferendo a lei Umberto I la contessa Litta) non poteva considerare ciò. Fu il siciliano Crispi a suggerirle la giovine Elena, o Jelèna nella natìa lingua, figlia del re Nicola del Montenegro, educata al prestigioso collegio Smolsky di San Pietroburgo, figlioccia dello Czar Alessandro e di casa dai Romanoff, alta (un metro e ottanta), bella di quella bellezza dinarica che affascina e consola, da’ bruni capelli, raffinata e còlta (scrive poesie e dipinge), educata ai valori della casa e della famiglia tradizionale, ad esser preferita. Per un incontro, poiché il Principe non avrebbe voluto interferenze alcune. Fu davvero ‘colpo di fulmine’, a Venezia prima, alla Biennale d’Arte, poi a San Pietroburgo ove i giovini si rividero per l’incoronazione dello Czar Nicola II (cui Elena si era pensato dovesse andar sposa), poi a Cettigne, antica capitale dello stato dell’Adriatico, in idillio di fidanzamento per qualche mese. Le nozze, dopo l’abiura della Principessa dal cristianesimo ortodosso al cattolicesimo, avvennero a Roma, in Santa Maria degli Angeli, il 24 ottobre 1896, davvero un matrimonio d’amore, nella difficoltà del momento, dopo la disfatta di Adua (tanto che un caporione dei maligni scrisse che erano "nozze coi fichi secchi", non potendo comprenderne la poetica semplicità). Condividevano molto: la pesca, di cui lei era appassionata, la fotografia, collezionavano francobolli e monete: ognun sa quanto sian di gran valore tali affinità elettive. Furono tali, pochi, anni di libertà per la real coppia, sino all’assunzione al trono, che vide il Re asceso dal mare, poiché seppe sulla nave ove si trovava, dell’assassinio di Umberto I: egli venne dal mare per impalmare la bella Elena, come lei stessa scrisse in una sua poesia ("è venuto dal mare, è biondo come sua madre…", nell’entusiasmo di un vero amore) e dal mare ascese a regnare sul popolo d’Italia: D’Annunzio ne echeggiò i destini alti e supremi, subito vergando un carme in tal senso.
Se i primi anni del suo regno furono improntati alla stabilizzazione del clima, dopo il tintinnìo delle sciabole e la carneficina del Pelloux nelle città e la repressione di Fasci socialisti, coi ministeri Zanardelli (durante il quale il Re approvò la discussione sul divorzio, per sfociare solo nel 1970 nella ‘legge Fortuna’) e soprattutto Giolitti, egli dimostrassi, come fu sempre, Re costituzionale, rispettosissimo delle prerogative reali come della lettera e dello spirito dello Statuto albertino, il quale dava la facoltà al Re di lasciar governare il Presidente del Consiglio, riservandosi però di intervenire nei momenti ove irrinunciabile sarebbe stato il suo augusto volere. Quei momenti ci furono, tragici, ed incisi a lettere di fuoco nella storia della nostra Patria. I mestatori, i sobillatori, i pescecani facinorosi, che in Italia sovrabbondano in ogni lustro, godono però nell’ammantare di tenebre quei frangenti che la triste circostanza del destino, le contingenze costrinsero ad assumere un aspetto di sofferenza collettiva: dimenticando artatamente i giorni della Luce, della concordia, dell’Unità nazionale che si compirono regnante Vittorio Emanuele III.
Per non dire dell’opere di beneficenza da lui, e più dalla Regina Elena, promosse e generosamente finanziate (la Sovrana di persona si prodigò nella pietosa opera di inumazione delle salme del terremoto di Messina del 1908, rimanendo giorni e giorni sul posto ad incitare, a confortare, ad asciugare lacrime: per queste ed altre meritevoli opere di carità, il Papa pio XI le consegnava la "rosa d’oro della cristianità", nel 1937: morta nel 1952, è in corso il processo per la sua beatificazione), è la grande guerra, codesto conflitto immenso e sanguinosissimo, le cui conseguenze infinite ancor si scontano fra i popoli d’Europa, che vide rifulgere il valore del Re, il quale da borghese, da autentico aristocratico, da uomo insomma profondamente fuso come l’acciajo de’ cannoni al suo popolo, al passo co’ tempi moderni ben oltre gli atteggiamenti dei predecessori, con uno slancio ed una sincerità che non si ebbero mai né prima, né dopo il suo regno, dichiarata la guerra il fatale 24 maggio del 1915, partiva subito pel fronte, colla semplice divisa grigioverde, le scarpe chiodate, la mantellina da ufficiale senza gradi, ogni dì sfangando tra le trincee, rischiando più volte di essere colpito dagli shrapnell austro-tedeschi. Aveva egli quarantasei anni e cinque figli, di cui uno, l’undicenne Umberto Principe di Piemonte, erede al Trono: un padre di famiglia co’ suoi soldati. Si creò, in quegli anni che erano senza radio, senza cinema se si eccettuano le pellicole del muto a temi ameni,solo colla propaganda dei giornali (si faccia oggi uno sforzo, per imaginarsi novant’anni fa privi delle comodità contemporanee: televisione, telefono, Internet… e si capirà meglio la grandezza del nostro popolo!) una autentica leggenda, di contro ai disfattisti che pure facevano sentire la canèa: il Re tra i soldati, il Re uno di noi. Quanto fosse egli amato, lo documenta un testimone di levatura rara, il letterato Giosuè Borsi: "Tu non vuoi obbedire", scrive al dubitoso amico Fioravanti il 30\8\1915, "al tuo Re, che rischia la vita in campo al tuo fianco, come l’ultimo dei soldati, e allora accetterai di soggiacere alla prepotenza brutale dei tedeschi?" Ed alla mamma, il 1°sett.1915: "I figli della Chiesa sono un esercito in battaglia. Nella stessa maniera noi siamo soldati della Patria; tutti i nostri sforzi, animati dall’amore della nostra terra, convergono a un unico scopo: la volontà del Re… Facciamo la volontà del Re, che è la nostra, condivisa pienamente e ardentemente da ciascuno di noi; ed egli è degno in tutto della nostra devozione obbediente, perché, come Gesù, dandoci per precetto di fare sempre la sua volontà, poi viene giù fino a noi, ci aiuta e soffre e combatte con noi, così il Re sta in mezzo ai suoi soldati, ne condivide i pericoli e i disagi, mettendosi alla pari col più umile di loro". Il Borsi morirà in combattimento il 10 nov.1915 a Plava, nell’alto Isonzo: disperso, si recuperò di lui unica reliquia, un libro della "Divina Commedia", intriso del suo sangue. Così i soldati d’Italia amavano il Re. Anni dopo, Piero Bargellini scriveva: "Il soldato del genio se lo vedeva a fianco nel lavoro; l’artigliere lo scorgeva a un tratto accanto al pezzo che sparava, il fante se lo trovava col viso vicino, a spiare dalla stessa feritoia. Molti non si accorgevano neppure chi fosse quel soldato, che all’improvviso appariva al loro fianco, li fissava coi suoi occhi acuti e irrequieti, chiedeva loro qualche notizia, distribuiva qualche sigaro, e spariva lungo un camminamento o dietro una fila di sacchetti di terra". La grande guerra, fonte di immani disastri ma anche di nuove aurore (nel suo diario, il 13 sett.1918, scriveva "Iddio però non distrugge se non per riedificare", il cappellano militare di Bergamo Don Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII) fu davvero una epopea, che affratellò come mai più avvenne, dal più umile al più grande, tutto il popolo italiano: ciò grazie anche all’esempio personale del Re Vittorio.
Il momento della sublime tragicità giunse a Caporetto: alle invettive dei traditori ("il prossimo inverno non più in trincea!") ed allo sfondamento del fronte, all’invasione, il Re rispondeva con risoluta, maschia virilità, assumendo direttamente il comando della situazione: rimosso Cadorna, un suo uomo, il Diaz, ebbe il bastone di capo delle operazioni militari: ma dietro le quinte, il Re dirigeva, con Vittorio Emanuele Orlando, il valoroso siciliano, a Capo del Governo. Nel convegno di Peschiera dell’otto novembre 1917 fu il Re personalmente che impose, ai capi alleati convenuti che intendevano, dando i rinforzi richiesti, retrocedere nelle linee al Mincio-Adige, la linea del Piave e del Grappa, oltre la quale non si doveva arretrare di un millimetro, e da cui sarebbe partita la riscossa. A Peschiera, scrive Bargellini, il Re precisò che "la vittoria avrebbe spiegato le ali dal Piave e dal Grappa e di lì sarebbe volata poi sugli eserciti alleati". Fu davvero così, e Vittorio Veneto, la presa di Trento e lo sbarco a Trieste, l’avanzata fino Fiume e Pola, compirono non solo l’ultimo atto dell’Unità nazionale contro il medesimo nemico del Risorgimento (come il Re scrisse nel memorabile proclama del novembre 1918) ma sancirono la verità assoluta della volontà del Re nell’avere la più cieca fiducia nel valore del soldato, indi del popolo italiano, in quel frangente storico ove anche i capi si mostravano dubitosi, paurosi, memori di antiche sconfitte. Il Primo Ministro inglese Lloyd Gorge scrisse nelle sue memorie, sul convegno di Peschiera: "rimasi impressionato dalla calma e dalla forza d’animo che egli dimostrò in un momento in cui il suo Paese e la sua corona erano in giuoco: non diede alcun segno di timore o di stanchezza..". Lo stesso nemico, il Generale Conrad (comandante dell’Esercito austro ungarico, durissimo ufficiale), scriveva poi che "Vittorio Veneto ci ha spezzato le reni… è di là che ci è venuto il colpo mortale". Quale miglior esaltazione per le nostre truppe? Esse che morivano per il Re, da cui fior da fiore trascegliamo un solo esempio, tra le medaglie d’oro al valor militare: il capor. Giuseppe Silicani, del 69° regg. Brigata Ancona, "…mortalmente ferito, coll’addome squarciato da una scheggia di granata, incitava e incoraggiava i compagni; agonizzante… spirava dichiarandosi felice di dare la vita per il Re e per la Patria". Sappiamo che molti nelle retrovie piangevano allorché perfino i disertori e gli imboscati, dopo l’ottobre 1917, si presentavano in massa alle armi, per il Re, in nome del Re. Sappiamo che anche nella nostra famiglia, come in tutte le famiglie d’Italia, il nonno che fece ben sette volte alla bajonetta dalle trincee, l’assalto sulle pietraje del Carso, e tornava nel dopoguerra fortunato di non esser mùtilo nelle membra, piangeva nell’udire quella canzone bellissima la quale compendia tali momenti gloriosi, senza retorica e senza fronzoli ma con estrema concretezza: "La leggenda del Piave"; sempre in nome del Re, di quel Re! Le medaglie che furono "coniate nel bronzo nemico", recita la dicitura, portate con orgoglio dall’umile soldato sino al petto di Sua Maestà il Re, colla sua effige calzata dall’elmo e la vittoria sugli scudi, simboli preziosi di quella gloria, son segni infrangibili che non tramontano mai, come il sole dei chiari occhi di quel Sovrano, il quale negli anni seguenti dovette affrontare altre, più terribili prove. Sempre in solitudine, sempre nella correttezza formale della Costituzione. Sempre colla dirittura morale che lo caratterizzò in ogni istante della sua azione.
Il Presidente, oggi emerito, della Repubblica Carlo A. Ciampi, già suo sottotenente di artiglieria nel secondo conflitto, alla TV l’otto di settembre del 2003 spiegò che il trasferimento al sud nel pieno marasma dell’ultima guerra, da molti imputatogli a "fuga", salvò la continuità dello Stato e la costituzione del nuovo governo fu utile per risparmiare ulteriori tragedie alla Nazione. Miglior riscontro, da parte non benevola verso la sua memoria, non poteva rendergli il capo dello stato italiano.
Vogliamo ricordare così Vittorio Emanuele III: le scelte del Ventennio, per cui (dai memoriali dei suoi aiutanti di campo, lo Scaroni nel periodo 1933-35, ed il Puntoni negli ultimi sei anni di regno) il Duce, Benito Mussolini, è definito volta per volta, con acutezza, "uomo buono", "uomo di cuore", "una gran testa", spiegandone minuziosamente le ragioni, sono consegnate alla storia, obiettiva, che già sta facendo il suo dovere per far rifulgere la memoria del Re, nel suo giusto valore, riguardo quegli anni, comunque di grandezza per l’Italia, che vide la gran parte della cittadinanza migliorare socialmente, economicamente e nel prestigio interno ed internazionale, tanto che molti dei benefici effetti di quel periodo sono attuali oggi. Ma Vittorio Emanuele III fu solo a dirigere lo Stato, abbandonato da tutti coloro, specie gli antifascisti, poi lesti ad attaccarlo con inaudita ferocia: "Nei momenti difficili", diceva al Puntoni il 26\1\1941, "tutti sono capaci di criticare e soffiare sul fuoco: pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo ‘questa gente’ perché tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore ed al comandante del corpo d’armata perché gli italiani non si ammazzassero fra loro". Un intendimento dolorosissimo, quello di evitare il più possibile la guerra civile, che il Re mantenne due anni dopo: "la cobelligeranza ottenuta dal mio governo", disse nel 1944 al giornalista catanese Nino Bolla, "salvò parecchie cose, compresi gli interessi personali di molti antimonarchici, specie dell’ultima ora, che con il loro carico d’odio non sarebbero rientrati allora senza la cobelligeranza". Era nondimeno consapevole, gia anziano, che un’epoca eccezionale si chiudeva con lui: lo scrisse a futura memoria, nella lettera indirizzata il 21\10\1943 al generale McFarlane, capo della commissione Alleata, ove prospettava non solo la sua abdicazione, ma la libera scelta della forma istituzionale, quale il popolo avesse voluto. Si può quindi in qualche modo dire che fu Vittorio Emanuele III a ‘decidere’ anche la repubblica. Unicamente in base al suo dettame di Re costituzionale: "Io ho ubbidito unicamente e sempre alla volontà del Paese", ripetè sovente; anche se, affermò al figlio Umberto cui, con la Luogotenenza dopo la liberazione di Roma e poco prima dell’abdicazione, lasciava di scrivere l’ultima solenne pagina di quel periodo irripetibile, "posso aver sbagliato". Nessuno, si notò con oculatezza, allora dei coprotagonisti della scena storica, ammise alcun errore: poteva farlo solo un uomo dolce e sensibile, davvero simbiòtico col popolo italiano di cui fu il più amato Sovrano; colui che chiamava la Regina, semplicemente, "mia moglie", e per la quale raccoglieva violette e ciclamini sovente, agli angoli delle strade, in tenero affetto. Al molo di Posillipo, ore 19,40 del 9 maggio 1946, donde partì coll’incrociatore "Duca degli Abruzzi", v’erano a salutare il Re e la Regina pochissimi: tra questi, i marchesi Romeo delle Torrazze di Catania, fedelissimi dei Sovrani. Napoli lo vide nascere, Napoli lo vide partire. Chi si è staccato a sera da quel molo verso il mare, può forse comprendere la struggente malinconia delle ombre che calano sulle acque. Il Re "chinato verso ogni bella ferita \ ch’è rosa del suo regno; \ chinato verso il sorriso dei morti, \ verso il sorriso immortale dei morti, \ che è l’alba del suo regno" (cantava il D’Annunzio nel poema delle gesta della grande guerra), solo allora, pianse. In silenzio. Sul mare. Forse.
I Sovrani celebrarono le nozze d’oro in esilio, nella bella città egiziana ove nacque Ungaretti, anch’egli cantore della guerra sublime: "nell’aria spasimante \ involontaria rivolta \ dell’uomo presente alla sua \ fragilità" (Fratelli). In una poesia del vecchio Nicola del Montenegro, il padre della Regina Elena, v’ha un verso che pressappoco afferma: "non troverai la felicità sul Trono, ma in famiglia". Tornerà presto, colla Regina, il suo corpo dall’esiglio infausto, per riposare finalmente nel romano Pantheon assieme agli avi, nella riescita concordia nazionale per le patrie memorie? Lo crediamo, la storia rende giustizia ai giusti.
Egli, il Re Soldato –e rimarrà sempre tale nel cuore del popolo italiano- anche dal trono ebbe fonti di gran gioja: ma la felicità autentica, caso raro in ogni tempo, la còlse in famiglia, una felice famiglia, ove l’amore si coltivò con spontaneità e semplicità d’altri tempi. Amore all’antica. Anche per questo, fu un grande Re, un vero Re.



Francesco Giordano