giovedì 18 dicembre 2014

Butera celebra la V edizione del premio letterario dedicato a Fortunato Pasqualino







            Butera celebra la V edizione del premio letterario dedicato a Fortunato Pasqualino

La cittadina di Butera, "rocca di gran momento e di molta fama", come la descrisse il viaggiatore arabo Edrisi nel suo volume di geografia siciliana nel XII secolo, è un ridente paesino che si staglia, sentinella dell'Europa e della civiltà della madre terra sicula, al sud dell'isola: ha ospitato anche quest'anno, per la quinta volta, il premio letterario dedicato a un illustre figlio del seno suo, che prendendo la via dell'esilio giunse alla fama: Fortunato Pasqualino, scrittore, filosofo e poeta, sceneggiatore e riadattatore delle tradizioni popolari dei "pupi". Morto nel 2008 a Roma, mercè la prodiga attenzione dell'associazione catanese Akkuaria, sodalizio noto in tutto il mondo per le molteplici attività letterarie, narrative e artistiche, guidato da una donna di rare virtù e ingegno come Vera Ambra, assoluta interprete dello spirito del tempo che anima i variegati soci e gli aspetti del gruppo, il ricordo di Pasqualino è vivo nell'isola anche perchè la volontà dell'amministrazione comunale, guidata dal Sindaco Luigi Casisi, ha inteso coniugare la valorizzazione del patrimonio culturale buterese col ricordo dello  scrittore e legarlo alla promozione scolastica degli istituti che gravitano sul territorio.
Per queste ragioni, il premio letterario "Pasqualino" non è solamente una 'gara' di racconti o poesie in cui emergono autori nuovi i quali, forti di tale riconoscimento, si cimenteranno in nuove avventure, ma anche e forse soprattutto, un importantissimo stimolo per i piccoli alunni delle elementari e medie del buterese, nonchè per le loro insegnanti che dedicano tante ore alla educazione e formazione, chiamati a partecipare con elaborati di testo e immagini: si premiarono infatti i disegni degli alunni e le loro composizioni in verso, in prosa ed in lingua siciliana.
La serata del 14 dicembre, svoltasi nel teatro Scuvera, è stata allietata dalle opere in presa diretta del maestro pittore Salvo Barbagallo, esponente del movimento artistico verticalista, nonchè dallo show del noto attore catanese Emanuele Puglia, che ha sapientemente intrattenuto l'uditorio con esibizioni poetiche tratte da Buttitta, Martoglio e chiudendo con un brano del cantautore Spampinato. Sempre gradita la presenza, come nelle altre edizioni, della signora Barbara Olson, vedova di Fortunato Pasqualino, testimone del legame della famiglia col premio. Così l' 'incursione' del piccolo Carmelo, bambino diversamente abile che in un assolo di batteria ha fatto sentire la voce di coloro che non hanno voce, nella odierna società.
Vera Ambra ha con fare deciso condotto la serata, ove furono premiati i componenti della giunta di Butera e quanti a vario titolo contribuiscono alla riuscita del premio; tra gli interventi, segnaliamo la lettura di un brano di prosa di Fortunato Pasqualino, fatta dall'assessore alla Cultura di Butera Lorena Bicceri, che ne sottolinea la modernità; e quello dello scrittore e giornalista Francesco Giordano, che si è già occupato della figura letteraria di Pasqualino, il quale ha voluto sottolineare come, essendo lo scrittore in quanto poeta "un irregolare che esiste solo dopo la sua esperienza, un uomo di rischi sentimentali, ha esplicato la sua sicilianità nell'esilio, ovvero in modo da fare emergere quella insicurezza storica della mens siciliana che si estremizza nel credersi perfetti, o nella sofferenza dei lontani, come in Quasimodo, in Ibn Hamdis, o appunto in Fortunato Pasqualino... egli, uomo di fede densamente cristiana, ci suggerisce che mai bisogna perdere l'entusiasmo di sognare, lo stesso dei disegni dei bambini e dei discepoli di Emmaus i quali, smarriti, ritrovarono il Maestro, la sera, dopo la tragedia: questo è il segno della luce".
Il sole che sorge e tramonta sull'orizzonte, dall'alto della romantica bifora della torre arabo-normanna-aragonese di ciò che fu il castello della cittadina, dai ciglioni che costeggiano i contrafforti di Butera, ha accompagnato l'evento, qual muto testimone -ma quanto solenne!- della magìa del solstizio, che è simbolo del perenne amore della Natura verso l'essere umano, e prerogativa singolare della straordinaria terra di Sicilia.
                                                                                                                        F.G.

(Pubblicato anche in : http://www.associazioneakkuaria.it/?p=4143)

Nelle immagini: il gruppo dei premiati della scuola; Francesco Giordano, con Angela Agnello e Vera Ambra

venerdì 12 dicembre 2014

Premio letterario "F.Pasqualino" V edizione, Butera 14 dicembre 2014, ore 18




Domenica 14 Dicembre 2014 alle ore 18.00 presso il Teatro Comunale “Don Giulio Scuvera” di Butera si terrà la cerimonia di Premiazione della V° Edizione 2014 del Concorso Internazionale di Poesia e Narrativa dedicato a Fortunato Pasqualino.
Per il secondo anno il Premio è stato esteso, con una sezione speciale, agli alunni e studenti delle Scuole di Butera. Hanno preso parte all’incirca 150 ragazzi dell’Istituto Comprensivo Gela-Butera, del Plesso Scolastico Santa Caterina, del Plesso Scolastico Don Bosco e della Scuola Media “Mario Gori”.

Porteranno i saluti della città di Butera

Luigi Casisi, Sindaco Comune di Butera
Rocco Buttiglieri, Presidente del Consiglio Comunale di Butera
Lorena Bicceri, Assessore alla Cultura
Angela Adelaide Bonadonna Assessore alla Pubblica Istruzione
Agata Gueli, Dirigente Scolastico
Giuseppina Carnazzo, Dir. Sett. Cultura Comune di Butera

Relatori:

Angela Agnello, Presidente Commissione del Premio
Francesco Giordano, Scrittore-Giornalista
Vera Ambra, Presidente Associazione Akkuaria

Ospite della serata l’attore Emanuele Puglia

giovedì 4 dicembre 2014

Francesco Giordano e Vera Ambra alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Catania 25 novembre 2014, il video


Francesco Giordano e Vera Ambra alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Catania 25 novembre 2014, il video


Video riguardante la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, 25 novembre 2014, Catania, sala conferenze Ospedale "G.Garibaldi" sede centrale, convegno "Insieme per dire basta": Vera Ambra, fondatrice di Akkuaria, porge i saluti e descrive il senso dell'evento, sul "codice rosa" e la campagna del "fiocco bianco"; Francesco Giordano, scrittore e giornalista, interviene sul tema, col ricordo -non privo di contestazione- di due donne esempio di virtù e vittime di violenza, elevate alla santità dal Cristianesimo: Agata la protomartire e Maria Goretti, concludendo con una frase del primo ministro israeliano Golda Meir.



lunedì 3 novembre 2014

Novembre, i Morti: Mario Rapisardi






Novembre, i Morti: Mario Rapisardi 

"Ella verrà: già della sua presenza
tutta la radìosa estasi io sento,
un tramontar di tutti i sensi in una
beatissima calma, un ineffabile
dissolvimento, come allor che trepida
l'anima nell'amata anima penetra,
e in un moto, in un'ansia, in un oblìo
divino, il cielo dell'amore attinto,
soavissimamente si distempra,
e trasfondendo altrui la propria vita,
nell'immortalità sente la morte".

Dal poemetto "Nel triste Asilo", in "Poemi liriche e traduzioni di Mario Rapisardi", Palermo 1911, pag.535


*Le immagini fotografiche sono state da noi scattate al Cimitero monumentale di Catania il 2 novembre 2014

giovedì 2 ottobre 2014

La Madonna di rue du Bac a Parigi e la “medaglia miracolosa”, un pellegrinaggio originale nella “ville lumiéré”





In una delle capitali del mondo fra le più belle nel senso pieno, quella Parigi di cui Emilio Zola scrisse che "fiammeggia sotto la semenza del sole divino", v'ha un sito recondito che non è secondo a nessun altro luogo per afflusso immenso di pellegrini da ogni angolo della terra: e però, a differenza della torre Eiffel così nota e visitata dalle masse, è seminascosto. Perchè mai? Uno dei tanti misteri dell'umano che si confonde col divino.
Recandoci nella capitale della Repubblica Francese, di quella monarchia divina che osò tagliare le teste dei Re -salvo poi pentirsene amaramente e comporre nella cripta di Saint Denis un monumento funebre a Luigi XVI e Maria Antonietta e agli altri sovrani le cui ossa furono disprezzate dai sanculotti nei giorni nefasti del terrore- non possiamo che ammirare la Senna, Notre Dame celeberrima per il romanzo di Hugo, il museo del Louvre, quello d'Orsay di arte moderna; ma immettendoci nel boulevard Saint Germain, zona universitaria, troviamo una via discreta punteggiata da negozi eleganti, di stile, una via senza pretese, sinuosa ma che racchiude un miracolo: è la rue du Bac. Senza fretta si giunge, ed è un percorso da fare a piedi a mo' di purificazione qualunque sia il luogo ove si alloggia -sebbene la metropolitana parigina, efficientissima, abbia la fermata nei pressi- al numero 140, una facciata anonima. La quale nasconde la sede generalizia delle Suore della Carità di San Vincenzo de' Paoli. E che, dirà lo scettico, tanta strada per vedere la casa delle monachelle dal velo bianco? No, perchè lì accade un fenomeno costante per chi crede ed anche per chi dubita. Nel novembre 1830 in quella chiesa interna ad un lungo cortile (ed è una ampia chiesa, che chiamare cappella sembra quasi riduttivo, ha tre navate e una loggia superiore), avvenne una apparizione alla novizia Caternia Labourè: pare che una Signora vestita di bianco le abbia parlato per ore, e fatto vedere una immagine da cui chiese di coniare una medaglia, la quale dipoi venne appellata "miracolosa", perchè durante l'epidemia del colera del 1832 a Parigi (in seguito dilagò in Francia e tutta Europa: in Sicilia giungeva nel 1837 e fu concausa della rivoluzione indipendentista di quell'anno) salvò parecchie persone che la indossavano "con fede", come disse l'apparizione. "O Marie conçue sains peché, priez pour nous qui avons recours à vous", è la scritta che Suor Caterina riferì le dettò la Signora, che lei subito identificava per la Madonna. Non era ancora stato proclamato, per consenso dei fedeli più che per fondamento teologico, il dogma dell'Immacolata Concezione (lo sarà nel 1854:  Gregorio XVI e Pio IX porteranno la medaglia), ma era l'inizio del ritorno al marianesimo, in quel XIX secolo dilaniato da lotte intestine fra laici e clericali, dalla divisione, dall'odio di classe. L'apparizione diffuse armonia.
E' silenzioso il cortile profondo, ma addirittura surreale l'atmosfera nella chiesetta interna, laddove è sempre presente un nucleo di persone che pregano, e vi si trova visibile in una teca il corpo mummificato (pare incorrotto) della Suora veggente, che fu proclamata beata da Pio XI e santa da Pio XII nel 1947, quel grande Pontefice mariano che al più presto dovrebbe meritare gli onori degli altari come i suoi successori.   La "medaglia miracolosa" in quel luogo è un semplice oggetto, un messaggio, un simbolo , un ritorno dell'anima alla concezione matriarcale ed ancestrale della storia, un "rovescio della storia" o meglio ancora, ha scritto sapientemente Jean Guitton, un luogo "che attira soltanto gli sguardi che si chiudono per vedere", al contrario della Parigi che fa spalancare gli occhi per materiali bellezze? Noi non pretendiamo di saperlo. Però possiamo trasmettere e testimoniare che in quel luogo regna ciò che gli antichi egizi, precursori della religione cristica, chiamavano Maat (identificandola con una dea specifica), cioè il concetto di Verità-Giustizia.  E' una percezione indubitabile; se al più, si professa la religione cattolica, non si può che vedere nella "mamma del Cielo" (così le preghierine dei bambini dei tempi passati e presenti, che non si dimenticano, perchè i bambini sono i prediletti della Divinità, specie della mamma...) la solenne, intima, infrangibile protezione che il misero, il potente, il pusillo, l'orgoglioso e anche l'inflessibile ateo, ripongono nel Principio germinale della vita, che se è suffragato dalla scienza odierna e passata, s'arresta dinanzi ai fenomeni che non hanno spiegazione razionale.
La statua della Madonna sull'altare maggiore, a rue du Bac, è quella classica a tutti nota con le mani abbassate e aperte da cui si dipartono i raggi, cioé le grazie che ella spande sugli uomini indistintamente; ma la figurazione che Caterina Labouré volle sulla sua tomba rappresenta un altro aspetto della "Signora", mentre ha lo sguardo in alto e tiene fra le mani un piccolo globo. Nelle testimonianze coeve, l'una immagine non contraddice l'altra, si completano. Anzi la Madonna col globo è quella missionaria -se qualcuno rammenta gli anni di Pio XII e dello zelo missionario mariano del dopoguerra: "o Madonna pellegrina, vieni in questa terra devastata dalla guerra..."- e ancora più incisiva, perchè esso è il cuore di ogni essere che viene accolto fra le mani della Madre. In veloce carrellata pensavamo che tutte le religioni, dai Sumeri fino a noi, hanno serbato intatto il principio materno e anzi che esso, più che la visione patriarcale poi prevalsa, è l'aspetto più autentico, occulto, "isiaco" se si vuole (l'antica Lutezia fu la città di Iside, Par-Isis), ma quanto più reale, della exoterica immagine del maschio dominante, la cui fragilità si appalesa dinanzi alle contingenze del quotidiano nonché ai grandi dolori. Allora non bastano parole, solo la Grande Madre: e si ritorna a rue du Bac, alla medaglia che è non solo un segno distintivo delle monache vincenziane (note in tutto il mondo per la carità verso gli ultimi), ma anche un percorso. Se è vero che la ragazzina di Lourdes, la casta Bernadette, quando fu testimone delle apparizioni mariane 28 anni dopo Caterina, aveva al collo la "medaglia miracolosa", l'oggetto smette di essere un feticcio e riporta al grande mistero: "monstra te esse matrem".
"Parole non ci appulcro", avrebbe detto un altro grande innamorato di Myriam, l'Alighieri che Foscolo definiva "il ghibellin fuggiasco": ma non fuggiasco da se medesimo, se colse nella luce sterminata della Vergine, il compimento sommo del poema. E per chi sorride scetticamente, cosa affatto comprensibile, potremmo citare i simboli ma la disamina sarebbe lunga: bastino le 12 stelle della medaglia, presenti nella bandiera di quella tanto vituperata Unione Europea da taluni tacciata quale causa d'ogni male economico delle Nazioni affiliate: e tuttavia, sembra che nel disegno originario poi approvato dalla laicissima commisione vi fosse proprio l'ispirazione mariana derivata dalla visione di Caterina Labouré: "ti coronano dodici stelle...", recita un canto popolare mariano. Sono anche i 12 segni dello zodiaco di Denderah e della tradizione astrologica delle società iniziatiche? Nulla è in contraddizione, anzi tutto è Uno, per chi crede.
A noi, per concludere, piace pensare che il trentatreenne Vincenzo Bellini, che a Parigi còlse il fulgore del successo e la mestizia della morte negli ultimi due anni della sua vita nella capitale francese (estate 1833-settembre 1835), mentre in sequenza nel delirio di quel tragico 23 settembre a Pouteaux vedeva la mamma, i parenti e Sant'Agata e Catania, solo, nel velo che gli coprì per sempre lo sguardo, lui così religioso (ma fu anche carbonaro e amico di molti esuli patrioti, dal Pepoli autore del libretto dei Puritani, alla principessa Belgioioso), abbia avuto in mano anche la  già diffusissima a Parigi medaglia "miracolosa" e con quella visione mariana, e molto siciliana, si sia involato verso l'Infinita azzurrità, accolto come ognuno se vuole può, da quella Luce che non ha orizzonti, perché soffusa da scintille di assoluto.
                                                                                Francesco Giordano

(Pubblicato sul quotidiano online LinkSicilia: http://www.linksicilia.it/2014/10/un-siciliano-a-parigi-alla-scoperta-della-madonna-di-rue-du-bac-e-la-medaglia-miracolosa/)

mercoledì 10 settembre 2014

giovedì 4 settembre 2014

Vendemmia; e un segreto sulle bucce di fichidindia...







                        Vendemmia; e un segreto sulle bucce di fichidindia...

Tra fine agosto e inizio settembre -anche se tradizionalmente il periodo si prolunga sino a novembre- nella nostra isola del sole, la Sicilia, è tempo di vendemmia. Una filastrocca dei nonni così recita, in pretta lingua siciliana: "A settèmbri è bellu stari ntra li vigni, ccù fruti, frutticeddi e fruti magni: sù fatti li sorbi, sù chini li pigni, nuci, nuciddi, 'nzalori e castagni". E' l'annuncio dell'autunno che avanza: ma non solo uva dona la nostra Sicilia in questo perodo, bensì  le frutta lasciatici da' nostri majores nei secoli e millenni passati: in primis il bellissimo ficus indica, "a ficurìnnia", dal sapore unico e delizioso; poscia le mandorle, divinissime e dolci drupe di Dio (ma esistono anche quelle amare, come vi sono gli angeli bianchi e gli angeli neri)... le olive, forse le uniche autoctone siciliane, sin dall'epoca pre ellenica presenti nelle campagne. Ne fanno fede gli alberi secolari (millenari?) di ulivo, che ci proteggono e ci fanno innamorare della loro maestosità. ancora i frutti sono piccoli, in autunno saranno maturi. C'è, specie nel brontese (la nostra zona di riferimento) il pistacchio, "a fastùca", anche se quest'anno non è quello della produzione: le verdi fronde crescono tuttavia e proteggono dal calore della tarda mattinata.
Siamo stati a vendemmiare, come ogni anno da qualche tempo, una vendemmia precoce poichè preferiamo raccogliere, per uso casalingo, l'uva densa della freschezza adolescenziale e "bambinesca", piuttosto che già matura.  L'uva nera da vino si può mangiare appena raccolta, oggi si definisce "da agricoltura biologica" quella non coltivata nè trattata da alcunchè. Le ore sono quelle dell'aurora e di Lucifero, Espero la stella del mattino: dopo il cavalcare del carro infuriato di Iperione, è d'uopo tornare alle cittadine magioni.
Qui condividiamo con l'affettuoso lettore, una delizia da pochi nota e da pochissimi forse praticata: se è appassionante raccogliere, almeno da noi, il dolce frutto dell'Opunzia tramandataci dagli Spagnoli (venne importata in Sicilia durante il Viceregno, regnando Filippo II o Carlo V, pochi lustri dopo i viaggi di Colombo nelle Americhe, dappoichè è originaria del Messico) e divenuto, con l'Agave marginata, il simbolo iconografico e folklorico della Sicilia; quasi nessuno sa che, come l'anima dell'Essere è raccolta sotto la scorza sottile, così il segreto del frutto di ficodindia è nella buccia. Sì, proprio in quella parte difficile perchè intrisa di intense, infestanti, diffondenti spine.
Avevamo saputo, e letto, che in alcune parti montane di Sicilia si prepara una certa specialità, "i scòrci di ficudinnia", fritte o dolcificate. Della marmellata si sa, del liquore pure: ma le bucce da mangiare.... Ebbene, suggeriamo un metodo sbrigativo ma altrettanto esoterico -il termine non è a caso- per gustare tale prelibatezza dell'Isola Trinachìa: si prenda un coltello affilatissimo ed a punta e si passi fra la parte esterna delle bucce  -ovviamente dopo aver lavato e levato la polpa del frutto, che sarà messo in apposito contenitore- e l'interna. Se ne ricaverà una sottile pellicola, da mangiare sul momento. Non si può descrivere il sapore, laddove narriamo del ficodindia "zolferino", cioè giallo, e sempre della zona brontese da cui lo raccogliamo.  Solo chi fa l'esperienza, e se è personale deve saper distinguere il frutto che è rimasto di più al sole da quello che era all'ombra al momento della raccolta, per fare la differenza al palato, può conoscerne i segreti. E' un mistero incomunicabile, che viene còlto fra l'astro del giorno e quello della notte, codeste due colonne del mondo. Al centro, il gusto pentalfico dell'Infinito, del Dio ignoto, e noto.
"Là fra picee lave
da' rosseggianti vertici, le irsute
macchie il tenace fico d'India assiepa"
(Mario Rapisardi, Sera d'agosto, dalle Poesie Religiose).
E sia lode dunque al Divino ed alla Natura onnigena, che a piene mani ci donano codesti frutti della Terra, la Grande Madre dei Mondi, che apre il cielo, sempre, con infinita bontà...
                                                                                                                     ***

giovedì 31 luglio 2014

La Playa di Catania, com'era: sull'onda del tempo perduto






              La Playa di Catania, com'era: sull'onda del tempo perduto

Com'era bella la Playa di Catania, celebre spiaggia di sabbia quarzifera purissima, fra i cinquanta ed i trent'anni fa! Quando la Playa era dei catanesi e di quelli della provincia, solo loro: non invasa né dal modernismo distruttore, né dalla omologazione delle mode stupide. Doverose, in estate, le digressioni marine: da noi, a Catania, ci si è sempre divisi fra i fautori della sabbia e degli scogli: è una querelle che non finirà mai. Personalmente siamo partiti con l'imprinting equanime: da bambini eravamo parallelamente presenti sia al lido, sull'arenile sabbioso catinense, che sugli scogli di Giardini Naxos, sotto il bellissimo promontorio di capo Taormina. E siamo cresciuti con quelle immagini, che rimangono impresse per sempre. Ma statisticamente, come frequenza, era la Playa che aveva il predominio: anche per questioni prettamente logistiche, abitando in città.
Abbiamo vissuto la Playa degli anni settanta e Ottanta, "plasmati" da mamma è papà che l'avevano vissuta negli anni Cinquanta e Sessanta, l'epoca aurea -se non si contano i nonni che già bazzicavano il lido Spampinato prima della guerra, e il lido Longobardo a San Giovanni li Cuti- : e ritornare ora, come ogni anno, sulla sabbia, è un viaggio nella macchina del tempo, l'eternèl retour di simbolica memoria. Non tanto il Paradiso perduto di Milton (anche quello, sì...), quanto la "recherche" proustiana. O meglio, voler ritrovare quel "colore del tempo" già delineato magistralmente dal catanese (la mamma era una Asmundo) elettivo Federico De Roberto, nell'omonimo volume di finissimi saggi. Don Federico se ne andò in una lontana estate del 1927, a  luglio: una fine, un inizio. In quegli anni era temerario andare al mare: la pelle nera dal sole era appannaggio dei pescatori che, come la famiglia Malavoglia, gettavano la rete per vivere: necessità, anànke, cruda realtà. La "moda" dell'andare in spiaggia ad abbronzarsi è del XX secolo, anzi degli anni Trenta, quando si iniziava a godere il benessere, c'erano i "treni popolari" che portavano i bimbi delle colonie al mare (da noi alla Pineta, ovvero Boschetto della Playa, creato dal Regime mussoliniano, era la colonia DUX...).
E non ci ritroviamo più nella Playa di Catania del 2014, anche se siamo tornati a frequentarla, passati gli "anta".  Rimane il fatto, come le indagini di quest'anno confermano (a fronte dell'inquinamento da coliformi che ammorba il litorale degli scogli da Ognina, Acitrezza, oltre Capomulini sino a Fiumefreddo e San Marco), che il litorale catanese è il più pulito ed esente da scarichi fognarii, per quanto ne possano essere invidiosi i patiti delle pietre nere: la comunicazione è di Legambiente-Goletta Verde, che non ha motivi, ci pare, di partigianeria.   Però, è scomparsa la visione del mondo, provinciale forse ma del tutto intimista, casalinga, che albergava nella maggior parte dei lidi dell'arenile (mai abbiamo frequentato la spiaggia libera... snobismo familiare? Forse...), quasi del tutto. Il "quasi" è connaturato al fatto che, come nel Sudafrica attuale esistono le "homeland", le nazioni chiuse ai neri dove abitano solo gli uomini bianchi che quella nazione fondarono e resero prospera (come oggi è giusto che sia giunta ad un universo di pari diritti democratici), anche alla Playa, per la natura ultraconservatrice di una parte (forse minoritaria, però consistente) dei catanesi, sussistono stabilimenti balneari con la forma mentis degli anni Settanta e Ottanta, ovvero "uso famiglia", come era scritto nelle bilance cuciniere di un tempo. In altre parole, il classico lido dalla struttura in pittura chiara, file di cabine in legno sino al mare (non ci sono più, ed è anche giusto, quelle in muratura), frequentato da famigliole che ancora portano con sè il tavolino, sedie, rimangono tutto il giorno, ivi mangiano cibi trasportati da casa (la pasta al forno, il falsomagro e la caponata, col vino immerso nel secchio col ghiaccio comperato per strada, sono il classico...), anche se oramai nella "buvette" del lido, non ci si limita più alla tavola calda, ma giunge una vasta gamma di piatti gastronomici per tutti i palati e per tutte le tasche.
E gli ombrelloni sono uniformati, per cromatica scelta, il che è corretto... ma le sdrajo, oh, le sdrajo sono sparite, sostituite dal cosiddetto "lettino da mare" che sarà anche spazioso e comodo, ma quant'è esteticamente brutto, anti Playa, stile spiagge orribili del nord... No, il lettino no!  Ed a costo di "fari u trafficu", come si dice nella nostra sicula lingua ("prima tra le lingue d'Italia, è il Siciliano", Dante dixit nel XIII secolo, rammentiamolo sempre), preferiamo trasportare la cara, vecchia ma fedelissima sedia sdrajo in legno e tela, e assiderci lì, a guardare l'orizzonte, ascoltare canzoni, pensare e sognare. Sì, proprio quella stessa sedia che si vede nelle pellicole degli anni Cinquanta e Sessanta, da "Cerasella" ai films estivi con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.. quella, intramontabile, fedele, "eterna". E passim se è un po' affossata, se nessuno l'ha più e si ha l'aria retrò (del resto, non va di moda il vintage?), se si usano gli zoccoli di legno e non quegli orripilanti còsi di plastica...  La Playa non è più quella dei bei tempi, ma fin quando esisterà una vecchia sedia sdrajo old style, la bandiera della tradizione, pur offuscata e desueta ma viva, non sarà mai ammainata.
Com'era bella la Playa della nostra fanciullezza, quando prendevamo còlle mani le meduse che ci sbattevano in viso, ce ne fregavamo delle alghe e ci tuffavamo contro le garrènti onde del mare denso, anche oggi, di pescetti verdi e neri che, a volte impetuoso, tumultua a petto della meravigliosa visione dell'Etna e della città, distesa a' suoi piedi come una schiava millenaria.  Ora non vediamo nessun bambino che, quando il mare è mosso, si getta a capofitto sotto le onde: "Non si può, è pericoloso", lo dicevano anche a' nostri tempi, ma con un sorriso, come per dire che non era una cosa seria.  Ed ecco il punto: ora sono tutti, tutti troppo seri. Il bagnino ti fischia appena superi la boa e la corda (ma quando mai c'era la corda un tempo...), come se stessi annegando, e tutti guardano allibiti a guisa che avessi commesso un imperdonabile delitto.   Che ciò sia per la sicurezza è indubbio, tuttavia è anche esagerato, verso chi è adulto e sa ciò che fa.  Un tempo si giocava solo a tamburelli ed al massimo al flipper, i "vecchi" alle bocce (macchè scivoli, macchè quadro svedese). I tamburelli ci sono ancora, ma adesso i "vecchi" (non chiamateli più così, per carità) si mettono a ballare la "zumba", c'è l'istruttrice, e pure in acqua lo fanno.... "Santu Dddìu!"  E' quello il momento di scappare dal lido, se si è deciso di stare tutto il giorno o se si è così temerari da andarci il sabato e la domenica (giorni off limits per il caos e l'invasione della malacreanza anche nelle suddette oasi della tradizione).  Non parliamo poi della spiaggia per i cani, detta anche "dog beach": si passa per nemici degli animali, noi che li amiamo, se osa affermarsi che la commistione uomo-cane in acqua non è il nec plus ultra dell'igiene: ultimamente in un paio di lidi, c'è questo, alla Playa. E se si può capire che, notizia recentissima, anche ai disabili in sedia a rotelle sia stato permesso di accedere sino al mare, il bagno col cane è sintomatico dei tempi: a quando la spiaggia comune con cavalli e tartarughe (finchè non ci sia il famelico che le rubi per mangiarle)?
Al mare ci andavamo, e ci andiamo, alle 9, quando la marmaglia (senza offesa per nessuno, eh...) dorme ancora, quando i primi bagni sono i più belli e dolci come il bacio della canzone di Gino Paoli, "Sapore di sale"; quando si può godere, letteralmente, di settimana, della spiaggia vuota... ahinoi, solo per un'ora o due...quando le telline, ovvero i "còzzuli d'à playa", sono fredde e saporitissime da mangiare direttamente in acqua, come un rito ancestrale e propiziatorio al dìo del mare, Posidòne il magnifico...
Ma non tutto oggi è cattivo, per fortuna. Il telefonino "salva la vita", mentre a' tempi era un traffico: procurarsi il gettone alla cassa, aspettare che il telefono fosse libero, e poi parlare senza nessuna privacy: magari c'era dietro il tizio che sbuffava perchè aveva fretta di chiamare la moglie, stando al mare con l'amante... Le canzoni le puoi ascoltare con il medesimo telefonino, mentre allora c'era il 45 giri o per i più sofisticati, l'elle pì: e il mangiadischi da mare, per non dire delle audiocassette che spopolarono per un certo periodo: e tra noi, era il notissimo Brigantony, insieme con le canzonette napoletane -cantate dai catanesi!- echeggiato da tutti i gelataj di Catania, sia al mare che nei quartieri popolari: epoca delle "radio libere", come si chiamavano allora, e in TV, del Pomofiore di Gianni Creati, e del Festival della Canzone Siciliana di Pippo Baudo.
Come fai a spiegare tutte queste realtà, la magìa di quel periodo che era il riverbero di tempi ancor migliori, gli anni Cinquanta e Sessanta, alle pletore di ventenni nati in pieno "berlusconismo decadente" e che sembrano non avere pathos se non, come diceva il nostro Preside, Raffaele Urzì del Principe Umberto (morto anche lui), "per fare le pernacchie". Ma un momento... lo diceva a noi questo... e ora noi lo diciamo a' ventenni del 2014? Però nessuno più oggi fa una "pernacchia", intesa nel senso di Eduardo De Filippo, o meglio ancora del celeberrimo Pippo Pernacchia di Catania (lo abbiamo conosciuto), un personaggio che s'inventò il lavoro di spernacchiare a pagamento: oggi, con la serietà del XXI secolo, sarebbe stato arrestato per stalking! Quindi, se nessuno dei ragazzi più fischia e, all'occorrenza, spernacchia... cosa fanno? Lasciamo stare. Ricordiamo Catania democristiana, sino alla fine degli anni Ottanta: dopo le chiusura dei negozi in via Etnea, c'era il coprifuoco, tutti a casa. Era meglio allora oppure oggi, allorché già sin dalle 18 nei finesettimana c'è un vergognoso spaccio di droga in centro, pure dietro piazza Stesicoro (si passi per via Penninello, scalinata: le forze dell'ordine, poche e meritorie,  fanno ciò che possono, ma devono avere ordini precisi...)? Lasciamo perdere.
E così era la Playa, serena, felice, fino a trent'anni fa. La sera tutti a casa, appena il sole iniziava a tramontare. Niente balli, niente locali, niente capanne di paglia o pizzerie notturne o pub, niente "stirillìppiti", come si usava dire allora.  Al massimo una gazzosa o un selz al limone. Casa e Chiesa, nel senso letterale del termine. Ora la Playa non la riconosciamo più, con quegli orridi alberghi che sorgono laddove fu la meritoria, e bellissima, "Casa del Sole", colonia marina "elioterapica per tubercolotici" inaugurata da Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III appositamente convenuto in città, con lo yacht reale Savoja, il 20 ottobre 1934 ("Sua Maestà gradì il gesto della bimba che gli porgeva dei fiori all'ingresso dello stabilimento", riportano le cronache); quella Colonia fu nel dopoguerra gestita dal Centro Italiano Femminile, prosecutore dell'Opera Nazionale Maternità e Infanzia ex GIL: attività importantissima per moltissimi bimbi della provincia, che neppure sapevano cosa fosse, il mare... La dirigeva l'allora Assessore alla Pubblica Istruzione del Comune catanese Filina Gemmellaro, Sindaco Luigi La Ferlita.  Dopo il CIF la "casa del Sole" venne data in gestione alla Scuola Maria SS.Assunta, fondata e diretta da quel sacerdote dal polso fermo e serio che fu Padre Pignataro, rettore della chiesa di piazza caduti del mare altrimenti chiamato "u tùnniceddu da playa", il quale morì letteralmente di dolore, dopo una aspra e vana battaglia, per impedire lo scempio degli alberghi che cancellassero una istituzione che da decenni ospitava i bimbi più poveri e disagiati per le attività ricreative. Quella fu la vera "morte" della vecchia Playa (nei primi anni del XXI secolo), se si fa spazio allo schifoso denaro e si rade al suolo una struttura che anzi andava potenziata e valorizzata, proprio perché appannaggio dei poveri. Ma i poveri, si sa, sono graditi al Dio Supremo, non agli assetati dell'oro.  Resiste ancora, e per fortuna, la colonia Don Bosco, mercè l'opera laudevolissima del GREST salesiano e degli animatori, che oltre alle attività in sede,  trasportano i bimbi e ragazzi al mare nello spirito senza tempo della fraternità di San Filippo Neri (qui ci piace ricordare l'attività dell'Oratorio vecchio di via Teatro Greco, frequentatissimo da bimbi di tutti gli strati sociali): state buoni, se potete. E mano male che questo "muro" regge... Ma il resto, no.
Per tutto questo, continuiamo a pensare che la face distruttrice del tempo attuale sia illusoria, "Maya" come è nella filosofia indù. E quando ci sdraiamo sulla vecchia ma solida sdrajo dei bei giorni, all'ombra certo, mentre i bimbi giocano comunque coi castelli di sabbia e si tirano l'acqua addosso, amiamo pensare, come nella commemorazione di Ben alla fine del film "Oltre il giardino"  (1979) con Peter Sellers che cammina sulle acque, che "la vita è uno stato mentale".
                                                                                                                    F.Gio

Nelle immagini: la sdrajo senza tempo nella Playa del 2014, e una fotografia d'antàn della Colonia estiva del CIF catanese con base alla "Casa del Sole", nel 1960 -collezione nostra- : si noti l'Etna e le ciminiere del porto, non più esistenti. Chi si riconoscesse nell'istantanea, è pregato di scrivere in calce un commento...

giovedì 5 giugno 2014

Festa e processione di Santa Maria dell'Aiuto, Catania 1 giugno 2014






Come ogni anno, si è svolta la processione del venerato quadro cinquecentesco della Madonna dell'Aiuto, che in Catania si venera nell'omonimo Santuario, ubicato a metà di via Garibaldi; quest'anno la processione si tenne la sera del primo giugno, dalle 19 alle 23. E' una festa popolare  molto sentita nel quartiere, nelle cui vie del vero centro storico catanese, ove fu la città greca e quella romana, il quadro cinquecentesco della Vergine "nera" -come si sa la devozione alle immagini mariane aventi ascendenza scura è di origine orientale, e si rifà non solo alla diffusione del culto ad opera dei Cavalieri del Tempio, ma anche all'evo bizantino la cui Luce si irradiava da Santa Sofia, ove si venerava la sacra icona poi distrutta dai maomettani- s'immette, passando anche dal luogo, via Pozzo Mulino, ove era esposto nel XVI secolo al pubblico culto, adiacente la scomparsa chiesa che custodiva il capo mòzzo di Sant'Euplo, come in altra pagina di questo blog spieghiamo.
Ed è commovente constatare come, in tempi affatto a-religiosi, il culto della Grande Madre  -che accoglie tutti, anche coloro che brancolano nel bujo: perchè ella è la Luce di chi crede in una qualsivoglia speranza-   sia partecipato e sentito non solo da chi è avanti nell'età, ma anche da parecchi giovani. Fino a quando tali forme di devozione popolare sussisteranno, vivrà la Tradizione, vivrà l'Occidente. Per il dipoi, non sappiamo: ma la Stella del mattino con la Vergine bella, sorge ancora.

Qui il link di Youtube ove è un nostro video sulla processione di quest'anno:  https://www.youtube.com/watch?v=Wh2h3-J2rig

martedì 13 maggio 2014

Catania che fu mariana: una devozione da riscoprire





         Catania che fu mariana: una devozione da riscoprire

Nell'occasione della seconda edizione del volume "Catania mariana", scritto con passione e competenza da Mons. Gianni Lanzafame, si è tenuto il 12  maggio u.s. un incontro molto interessante nel salone detto 'dei Vescovi' sito in Arcivescovado, a Catania, organizzato dalla Compagnia della Mercede. Affollata la stanza ornata dai quadri dei rettori della Diocesi catinense, tènne la relazione dotta e colta il professor Antonino Blandini, già alto funzionario della Soprintendenza regionale, responsabile della casa museo Verga,  soprattutto illustre studioso laico del Cristianesimo nella città etnea e delle figure eminenti del suo culto, dal Beato Cardinale Dusmet all'arcivescovo Francica Nava.  Egli, nel consueto eloquio appassionante, ultimo di una grande generazione di studiosi siciliani i quali univano la passione alla acribia storiografica, ha potuto rilevare come nella città di Catania fu sempre vivo il culto "alla Theotokòs, alla Madre di Gesù, tanto da essere unito a quello primigenito di Sant'Agata: il popolo chiama Agata, in siciliano, 'a Marònna, cioè la mia donna, per antonomasia, ponendo così un legame forte tra le due figure".
Abbiamo peraltro apprezzato ciò che egli ha apertamente affermato, con tristezza ma lo studioso deve essere più amico del vero che delle piaggerie, ovvero la funzione del museo utile "alla salvezza di alcune opere, ma che ne impedisce la devozione popolare", fatto di incredibile importanza in tempi andati e oggi non ripetibile: tanto che "qui la sala è piena, ma fuori non c'è interesse per il culto mariano, e specie i giovani riderebbero di queste nostre memorie, che sarebbero invece da valorizzare". Quanta verità anche se venata di malinconia, in tali affermazioni, che nè il presente Arcivescovo metropolita Salvatore Gristina, nè l'autore del libro, osarono sottoscrivere. Ma lo studioso può: come può ricordare il culto diffusissimo che la Madonna ebbe, e ha ancora in alcune feste,  l'Immacolata l'otto dicembre e la Madonna del Carmelo. Ma vi era la devozione di origine bizantina alla Madonna dell'Idria, altrimenti detta Odigitria, colei che indica la via, o anche legata all'acqua, il cui tempio nel quartiere antico corso vicino all'ex convento benedettino, giace in istato di deplorevole abbandono; vi è il culto della Madonna dell'Aiuto, una "madonna nera di strada che venne accolta nella omonima chiesa santuario che ospita anche la copia della Santa Casa di Loreto": e molti catanesi non lo sanno.
Vi fu il tempio ora scomparso di San Berillo ove era una statua della Madonna del Carmine, la cui corona di ben 14 chili d'oro, nel 1954 fu fatta fondere dal noto orefice Avolio, con i contributi essenziali delle prostitute di quel quartiere che, quattro anni dopo, sarà raso al suolo nella opera di edificazione dell'attuale corso Sicilia; vi è la pregevolissima e mistica nel suo fulgore niveo, Madonna del Gagini in San Domenico, come la antica e precedente al terremoto del 1693, statua lignea dell'Immacolata, che si venera e porta in processione dal santuario omonimo in piazza san Francesco. Quel simulacro faceva il giro dei conventi catanesi o dei luoghi ove essi storicamente erano, salendo per via Garibaldi e girando per via Plebiscito sino alla Trinità e oltre nella strada reale, via Vittorio Emanuele,: accadde l'ultima volta nel 2003, ora non più.
Il tremuoto del 1693, una catastrofe per cui Catania novella fenice divenne città settecentesca, nell'architettura essenziale: ben ha ricordato il relatore che il 14 gennaio, tre giorni dopo il flagello, la città venne consacrata alla Madonna e ogni anniversario nel tempio detto dei Minoritelli, se ne perpetua il ricordo: "posuerunt me custodiem". Come il canonico del Duomo Cilestri, che impediva ai superstiti catanesi atterriti di lasciare la città e riedificare altrove: essi rimasero perchè lui brandendo la sacra reliquia di Agata, la vergine protomartire, li incitò a ricostruire (come non fecero a Noto, Avola e altri luoghi, che fondarono i paesi in posti distanti) nella terra dei padri: di Cilestri del quale Francesco Ferrara nel XIX secolo lamentava si fosse perduta la memoria, nessuno si rammenta più.  Verso la città oggi quasi trimillenaria,  volsero nel 1610 le pupille del Vicerè Duca d'Ossuna, mentre naufragava nello Jonio mare: chiese di salvarsi alla Madonna, e lei lo indirizzò verso un fuoco. Sbarcato il Vicerè alla "pescheria", trovò un altare e pochi anni dopo per voto ne edificava il tempio, dedicato a S.Maria del Carmine sotto il titolo dell'Indirizzo (il quale ingloba le antiche omonime terme). Oggi quella chiesa è disadorna e vittima di furti, dimenticata; ma fino agli anni Novanta del XX secolo si svolgeva la processione dell'antica Madonna dell'Indirizzo: che era presente nel salone sontuosamente addobbata, come si precisò, del cinquecentesco, preziosissimo manto donato nel 1774 dalla baronessa Zappalà Asmundo. E se ricordiamo che fu un maggio, quello del 330, che vide la fondazione di Costantinopoli e la dedicazione di essa alla Madonna, e uno stesso maggio, il 29 dell'anno 1453, che Maometto II entrando a Santa Sofia conquistata, fece spaccare in sei parti l'antichissima e veneratissima icona mariana (e trasformava la chiesa in moschea, come è ancora oggi) di cui la Salus Populi Romani e altre sono una eco (il museo diocesano di Catania serba una venerata similare icona), ciò sarà poco corretto politicamente  -adesso che accogliamo ogni dì i profughi molti dei quali sono musulmani-, ma non è meno vero nè terribile, ancora, a sentirsi.  Nè soprattutto deve essere dimenticato. Come sono invece dimenticati i molti altarini, sovente mariani, di cui Catania nel suo centro storico è popolata.
Una Catania che fu mariana, dunque. Devozione da riscoprire, ma che la gioventù ignora, anche perchè chi dovrebbe non vuole, forse non può, non ha volontà, sovente non bastano pochi se non è esempio grande e contraddistinto dal non confondersi col "mondo" -si sarebbe detto un tempo-, per ripercorrere un cammino assolutamente non in contrasto con la laicità, ma di essa  indispensabile sostegno. Una Luce, anzi, la più grande. Come sa chi ha intelletto d'amore, e nel mese delle rose, della Vergine madre e di Santa Rita (di cui in città da poco tempo è elevato a santuario il tempio di Sant'Agostino, dove è una bella Madonna del Parto...), depone la più bella e profumata di esse, al centro della croce, nel cuore del gran pellicano aureo.

                                                                                                                            F.Gio

(Nelle istantanee, l'antica Madonna dell'Indirizzo, col prezioso manto aristocratico)

martedì 22 aprile 2014

Riaperto il tetto della chiesa dell'ex monastero di san Nicola a Catania, una vista superba: lo si gestisca con giudizio








Riaperto il tetto della chiesa dell'ex monastero di san Nicola a Catania, una vista superba: lo si gestisca con giudizio

Dopo circa dieci anni (noi vi salimmo l'ultima volta nel 2005, in seguito è rimasto chiuso per restauri e problemi amministrativi), la direzione Cultura del Comune di Catania, Sindaco Enzo Bianco, il sabato della Pasqua 2014 ha deciso di riaprire quel luogo che ha pomposamente denominato "percorso di gronda della copertura della chiesa di San Nicolò la Rena", ovvero il tempio massimo di ciò che si diceva l'arca sacra, il possente monastero benedettino la cui grandezza, è bene ripeterlo, è seconda in Europa solo al monastero portoghese di Mafra. Quel complesso monastico eretto nel 1558, regnante Filippo II in Sicilia e in Ispagna, alla presenza del Vicerè De la Cerda Duca di Medinaceli, il quale fu sede prestigiosissima del vero potere in Sicilia per secoli e secoli, cioè quello ecclesiastico, innanzi a cui si piegavano, e a volte anche si umiliavano, gli stessi sovrani direttamente e nella persona dei Vicerè, fossero essi Absburgo o Borbone, ha resistito alla colata lavica del 1669 che lo lambì ma non distrusse, e persino al devastante tremuoto del 1693. Quel medesimo complesso che le leggi post-unitarie del 1866 avocarono allo Stato nazionale italiano, dette anche da parte cattolica 'leggi eversive', smembrandolo con la parte monasteriale dedicata a scuole e caserme, il tempio e la biblioteca benedettina, dagli anni '30 Civica e unificata alla collezione del barone Ursino Recupero, all'amministrazione comunale catanese. La chiesa custodisce, fra le altre ricchezze come la meridiana del XIX secolo e l'organo che fu di Del Piano, il Sacrario dei Caduti nelle due guerre mondiali, inaugurato dal Re Vittorio Emanuele III e affrescato da Alessandro Abate.

Sin dal dopoguerra l'accesso al tetto della chiesa fastosissima, immensa, grandiosa e dalla facciata incompiuta dei monaci benedettini cassinesi legati a quelli palermitani (ma da questa parte dell'Isola ben più opulenti e ricchi, perchè ricetto dell'altissima nobiltà cadetta di tutta la Sicilia, munifici nel gestire le risorse idriche a vantaggio proprio e del quartiere circostante, denso delle storie raccontate da De Roberto nei "Vicerè" su le ganze de' monaci e altro...) è stato libero e gratuito: ci racconta chi ha memoria e vigore di studioso, ovvero il noto appassionato di storia sacra nonchè già dirigente regionale professor Antonino Blandini, che i 133 gradini della stretta tromba delle scale che, da una piccola porticina all'interno del tempio, conducono perigliosamente sui tetti e fin sulla cupola, erano totalmente al bujo, al massimo si percorrevano con una candela: e però i monelli dell'epoca non avevano remore a scoprire i luoghi alti, da cui si gode una vista incomparabile a nord dell'Etna, a sud-est dell'intiera cittade e del mare e del porto, sino al capo di Siracusa e oltre.

Abbiamo rifatto il cammino ascoso sino alla vetta del tempio (l'accesso alla cupola, opera unica e superba di colui che ebbe il genio della perfezione e il nome di Stefano Ittar, della seconda metà del Settecento, ancor più precisa della stessa cupola di San Pietro in Roma, continua ad essere inaccessibile ma ci si dice che a breve tornerà alla pubblica fruizione), approfittando dell'apertura pasquale. Che non è sistematica purtroppo, per le note vicende comunali, ma fu occasionale, "passeggiata guidata", l'hanno definita. Si pensa a maggio di ripetere il cammino: in ogni caso, dietro prenotazione telefonica alla direzione della chiesa, retta come il Museo Belliniano dall'attenta cura del dottor Silvano Marino, che è tra i (pochi) funzionari comunali appassionato alle patrie storie, i gruppi possono accedere al tetto ed al panorama: c'è, come un decennio fa, da firmare una manleva per cui, considerate la fatica e i rischi, il Comune si sgrava delle responsabilità per eventuali malori cardiaci di coloro che salgono, e i bimbi sotto i 12 anni devono essere accompagnati dai genitori. Ciò posto, a tali condizioni, salire in uno dei luoghi più belli, e misconosciuti dagli stessi catanesi, si può e si deve.

Pare che l'Associazione che cura le visite guidate all'ex monastero benedettino, come è noto sede dagli anni '90 delle Facoltà umanistiche dell'Università etnea che ne acquisì la proprietà e lo restaurò con l'ìntervento di Giancarlo De Carlo durante la presidenza di quell'illustre storico che è Giuseppe Giarrizzo, ovvero Officine Culturali, sia interessata ad assumerne la gestione e quindi permettere l'accesso non occasionale ma organizzato. Il che crediamo sia positivo: a patto che, in tempi di difficoltà economiche per tutti, siano salvaguardati quelli che un tempo in linguaggio sindacale (ma quando i sindacati erano una cosa seria, con Di Vittorio, Giulio Pastore e Lama, non certo oggi!) erano detti i diritti acquisiti. In altre parole, come succede per un bene principalmente di proprietà dei Catanesi (e proprio perchè molti di loro non lo conoscono sarebbe il caso di fare tale deroga, se si vuole aggiungendo la cittadinanza di Palermo, al cui nucleo cassinese di San Martino delle Scale erano collegati i monaci, veri autori e proprietari, ieri come oggi, di cotale bellezza...), escludere dal pagamento di un eventuale biglietto -oggi l'ingresso gestito dal Comune è gratuito- i catanesi in quanto residenti e de facto "custodi" di questo bene dell'Umanità come il tempio di San Nicolò la Rena, che è di proprietà del Comune, come la splendida Biblioteca Civica: e aggiungere all'esenzione, come avviene già per i monumenti e luoghi gestiti dalla Regione Siciliana in virtù di apposita circolare assessoriale del 2000 nonchè della disposizione dirigenziale del 2008 che adegua alle normative nazionali, ribadita nel 2012, i rappresentanti della stampa. Sono piccoli segnali, ma se l'amministrazione comunale di Catania, come può anche essere utile, da in gestione un bene pubblico ad una associazione privata che ha già delle benemerenze, è a parer nostro obbligato a delle garanzie verso i cittadini in primis e le altre categorie a seguire. Del resto anche l'attraversamento dello stretto di Messina prevede un consistente "sconto" nel biglietto per i messinesi ed i reggini, nè potrebbe essere diversamente: considerata però la difficoltà di accesso al tetto della chiesa dell'ex monastero qui è il caso di esentare dal pagamento di un eventuale biglietto i volenterosi catanesi residenti che hanno l'ardire di salir su (le persone anziane sono per ovvie ragioni escluse), qualora si decidesse di fare gestire codesto bene a dei privati, come si ipotizza. Oppure si mantenga da parte del Comune l'ingresso gratuito ma si apportino importanti migliorie.

Infatti per quanto bellissima la vista, essendo nel vero cuore della città etnea, dell' "Etna e il mare, i miei due grandi amici", come scriveva Mario Rapisardi in un suo celebre verso, dal tetto della chiesa, necessario anzi indispensabile appare migliorare l'illuminazione delle due trombe di scale di accesso e di discesa (perchè da una scala a chiocciola gemella si discende dopo aver attraversato il tetto): gli scalini già di per sè ripidi sono molto, molto malamente illuminati da brutti e bassi faretti risalenti approssimativamente agli anni '80 (glissiamo sui fili elettrici a vista, oggi fuori norma), e il passamano a cui è indispensabile appoggiarsi per inerpicarsi, è assente in prossimità delle frequenti finestre d'aria che sono nel percorso, con il rischio, in offuscamento della vista dallo sfolgorante sole verso il tragitto di ritorno, di cadute pericolose (dalle cui responsabilità però, come dicemmo prima per il documento che si firma previa salita, il Comune è escluso). Se si adottano tali migliorie con una illuminazione molto adeguata, oggi possibile a costi bassi, e si completa il passamano nei tratti dove manca (nelle finestre areatorie della scala esso è pericolosamente assente...), sia la salita che la discesa verso il pinnacolo di quel tempio impressionante per la sua maestosità incompiuta, saranno sicure e affidabili come adesso sono in parte. E se negli anni passati si poteva passar sopra a certe carenze, adesso non si può più, nè si devono tacere.

Quanto era Abate del monastero benedettino, ricchissimo e possente, quel sant'uomo che fu Giuseppe Benedetto Dusmet, poi Beato e detto "padre dei Poveri", Arcivescovo di Catania lui panormita, da ultima autorità religiosa lasciò il complesso alle subentranti italiane, nel 1867: aveva già veduto la rossa camicia di Giuseppe Garibaldi entrarvi, nel 1862, al grido di "Roma o morte!"... ; il barbuto condottiero, salito sulla cupola di Ittar e fin sul lucernario di essa, quella cupola che il nostro poeta Domenico Tempio dice essere "na magna cubùla, na cassàta" che non ha eguali, aspettava le navi per traghettare in continente, e dal punto più alto del tempio le accolse "con lo sguardo appassionato di un amante", scrive nelle sue memorie. Il cuore del mangiapreti era appagato, proprio in cima ad un monastero di Santa Chiesa... ma Garibaldi non era ateo, questo sia chiaro: fu il "caudillo", si può dire il fondatore moderno, della Massoneria italiana, che notoriamente nella sua concezione filosofica, ha alla base un Essere Supremo. E però, il tetto della chiesa e la cupola di "Santa Nicola", come dicono i catanesi, stregò anche lui.

Sia posto a disposizione della repubblica letteraria e del popolo, codesto bene: con giudizio, e non "a còmu finìsci si cunta", per dirla nella nostra bella lingua siciliana.

                                                                         Francesco Giordano

Nota: le immagini a corredo sono state scattate da noi, il 19 aprile 2014.


Articolo pubblicato sul quotidiano online LinkSicilia: http://www.linksicilia.it/2014/04/catania-riaperto-il-tetto-dellex-monastero-di-san-nicola/

lunedì 24 marzo 2014

Sul Liotru, una mostra all'Art Gallery di Catania e il quadro di Maria Tripoli






Sul Liotru, una mostra all'Art Gallery di Catania e il quadro di Maria Tripoli

Siamo stati alla mostra tematica "U Liotru, la leggenda di Eliodoro", inaugurata all'Art Gallery di Catania (via Galatioto 21) il 22 marzo, la quale ha seguito il filo tutto catinense, della storia del simbolo civico a cui -per chi conosce la narrativa patria- è indissolubilmente legata la figura del maguseo ario Eliodoro, che si tramanda facea sortilegi con l'elefante lavico ubicato da millenni in piazza del Duomo, e poi martirizzato nel 778 con trionfo del Cattolicismo più esasperato, ad opera del Vescovo etneo Leone detto "il taumaturgo". L'Illuminismo del secolo XVIII per opera di un geniale ingegno, il quale forse per compensare la crudeltà del predecessore in senso catartico, fu pure sacerdote, ovvero Giovanbattista Vaccarini, creò ispirandosi alla Minerva romana, l'artistica fontana che dal 1736 ingloba il vetustissimo monumento nella cruciale platea magna, ove ad Oriente -e ad Oriente guarda l'elefante catanese con la proboscide eretta e gli occhi di un marmo agghiacciante- è il tempio sacrato di Agata, la tutta pura e protomartire.

Ci occupammo diverse volte in illo tempore (ultima su Lo Spettatore, giugno 2005 in un breve saggio), della figura di Eliodoro e dell'elefante: l'idea originale (il gallerista messinese Luigi Sciacca l'ha propugnata, Ninni Fodale sapientemente coordinò la serata), l'ambiente elegante e gli incontri inevitabili fra coloro che manucano il medesimo pan del sapere... non potevamo mancare alla esposizione degli oltre 50 artisti, tutti più o meno noti alla memoria di chi vagola nel mondo dell'Arte. Soprattutto per l'invito di una di essi, per noi assai rappresentativa, ovvero Maria Tripoli. Qui solo poche notarelle sul suo quadro.

Il quale ci fece venire in mente da subito Bachofen, che nel suo libro "Storia del matriarcato" così afferma: "Dove la religione si trae da una contemplazione della Natura, essa è necessariamente anche una verità della vita e il suo contenuto è in pari tempo storia del genere umano". Osservando i due elefanti, il femminile che delicatamente appoggia la zampa sul capo del maschile, nonchè la sirena che crea dal rosso della lava-sangue il bianco latte della neve eterna, non abbiamo poturto prescindere, nella lettura del quadro dell'artista in questione, dalla assolutizzazione di un tema di per sè locale. E' proprio l'abilità inconscia del vettore, o della medium in codesto caso, che ne fa un poliforme anelito delle essenze ancestrali che in ognuno di noi vagolano. Il Liotru, correzione in lingua siciliana del nome di Eliodoro (come l'elefante lavico, di fattura più che bimillenaria, è appellato dal popolo catanese) assurge non solo a valore talismanico universale, ma quasi si defila, per rappresentare quella femminilità inscindibile dal carattere civico, che è stata senza dubbio veruno la forza della comunità catanese e la sua grandezza nei momenti peggiori, in particolare dopo il funestissimo tremuoto del 1693. E ancor oggi solo il pennello di una donna di rarissima finezza d'animo, nata appié del vulcano, poteva coglierne le impalpabili sfumature. Che miscelano la nostra tradizione con il Ganesha dell'India, la saggezza del naturistico e pacifico animale con la Balad el fil de' mussulmani di Sicilia del X secolo (così Edrisi appella Catania nel suo Kitàb dedicato al gran Ruggero); Eliodoro il saggio, nel cui sangue ebraico fu la scintilla della bellerofontea femminilità, rivive e risorge nell'aspetto androgìneo che gli diede la tela di Maria Tripoli, onde -con gli altri quadri che formano un prisma assolutamente accattivante nella mostra di Art Gallery- non già celebrare, ma compiacersi dell'essenza, più che del contenuto, vanìto e malfermo ultimamente e però non silente. Laddove l'athanòr, come in tal contesto, riprende il volto della Natura, nel fuoco dell'eternità.

                                                                                                             F.Gio

Nota: negli scatti, nostri, Maria Tripoli e il suo quadro

martedì 4 febbraio 2014

Catania e la Sicilia riabbracciano Agata, la Santa in giro fra il popolo il 4 e 5 febbraio









 

Catania e la Sicilia riabbracciano Agata, la Santa in giro fra il popolo il 4 e 5 febbraio



 04 feb 2014   Scritto da Francesco Giordano                     


                   LE ORIGINI DI UN CULTO CHE AFFONDA LE SUE RADICI IN UN PASSATO LONTANISSIMO
Il giorno tanto atteso, in cui come ogni anno, i catanesi e tutti i siciliani devoti riabbracceranno le reliquie miracolose di Sant’Agata, la protomartire venerata in tutto il mondo per essere stata fra le più elette anime della novella religione del Messia Gesù, ad immolarsi per preservare il voto di verginità che un bieco figuro voleva violare, è giunto. La mattina del 4 febbraio usciranno dalla “cammaredda” del Duomo entro il busto reliquiario del XIV secolo, mirabile opera dell’argentiere Archifel, e la Santa in corpore e in spirito, dalla Chiesa che la custodisce, verrà consegnata ai cittadini di Catania e del mondo cristiano, per il cosiddetto “giro esterno”, che in realtà è il più importante e il clou della festa.
Qui teniamo da catanesi, a ribadire ad onta delle disinformazioni che sorgono ogni anno, che la terza festa più importante della Cristianità mondiale, ovvero quella di Sant’Agata, che richiama nella città dell’elefante migliaia e migliaia di siciliani, italiani e stranieri, in encomiabile ritrovo di commerci e festività allegre, che il vero giorno delle celebrazioni più sentite è il quattro, sia perchè fu quella sera che la Protomartire subì la morte, nell’anno 251, sia perchè è la giornata in cui essa vive carnalmente più a contatto con il popolo, stando fuori per oltre 24 ore e rientrando in Duomo la mattina del 5. L’uscita del 5 febbraio, la salita per via Etnea, i fuochi e il rientro probabilmente, come avviene negli ultimi anni, la mattina del 6, sono solamente scenografie utili e belle, ma per i turisti.sant'agata-300
La festa agatina dei Siciliani, dei catanesi, è il quattro: specie quando lei, la Vergine bella, unica nelle sue arti magiche (non sia creduto inopportuno tale termine, diremo subito il perchè) di protezione e di talismano civico, gira per la via del Plebiscito, ovvero il vero cuore pulsante della città di Catania. La via che abbraccia come in un cerchio tutti i quartieri storici e antichi ove vive la gente vera, non inquinata come molti affermano, dal letamaio della corruzione dell’anima, devota in modo estremo a volte e però pienamente cosciente, oltre le vicende tristi del quotidiano, che se salvezza può esservi, essa proviene dalla Luce dell’Altissimo, di cui la Buona (il significato del nome Agata, dal greco) è sacerdotessa.
Non si può qui non rammentare che, se è antichissima e sempre sentita dai cittadini di tutta la Sicilia (nel XVII secolo una annosa disputa voleva contendere i natali di Agata da Catania a Palermo, tanto era importante il suo culto, e molto legati le sono anche i panormiti, così anche i maltesi: e però, se è vero che la documentazione degli Atti vetusti danno incontrovertibilmente per città natale Catania, è anche indubitabile che conta più della nascita, il luogo del martirio, che è appiè dell’elefante; inoltre che il culto agatino sia universalmente siciliano, è manifesto da tutta la liturgia della Chiesa sin dal IV secolo, financo Roma la modellò su quella qui esemplata) la devozione per Sant’Agata, essa ha la radice storicamente ineludibile nelle feste in onore della Dea Iside, che particolarmente nella Sicilia orientale erano diffuse sin dal III secolo avanti Cristo, precisamente dopo lo sposalizio del basileus Agatocle di Siracusa con la principessaa egiziana Teossena, che promosse il culto della Magna Mater della terra d’Oriente qui da noi.
E che analogie non già, ma esatte copie del “navigium Isidis” fossero le feste agatine sino al XVII secolo, ce lo testimoniano sia i documenti che i fatti; in ogni caso basti rileggere le Metamorfosi di Apulejo laddove lo scrittore descrive i culti isiaci, per ritrovare gran parte della festa agatina, nella sua vitalità popolare e polisemica. Anche gli studiosi religiosi del XX secolo, fra cui il massimo esperto Mons.Santo D’Arrigo, hanno riconosciuto la radice isiaca del culto di Agata, che nulla toglie alla pia devozione della donna integerrima e dalla verginità immacolata -Agata subì il martirio fra i 18 e 20 anni, pienamente incardinata nel regolare verginato religioso del primo Cristianesimo, oggi si sarebbe detta una Suora, o meglio una Diaconessa- avvolta nel Velo sacro, che ancora oggi fa parte del corredo delle reliquie e la raffigura nel primo esempio iconografico ricordato, il mosaico di Sant’Apollinare di Ravenna, del 550. Mentre il volto a noi tutti caro del busto attuale altro non è che il calco del viso della Regina di Sicilia Eleonora d’aragona, moglie del grande Re patrio Federico III, la cui tomba (XIV secolo) è pure nel Duomo catanese.
Nella prima “liturgia catanese” dopo il ritorno delle reliquie dalla cattività costantinopolitana, nel 1126, si legge: “Tu gloria di Trinacria, tu letizia della città di Catania, tu onore dei tuoi concittadini! Esulta o Catania per il nuovo avvento di Agata…La Sicilia tu difendi, o rosa stimatissima, e proprio la tua patria Catania tanto nobile”. Regnava a quel tempo Ruggero II, l’illuminato normanno fondatore col padre del Regno di Sicilia, da cui bisognerebbe prendere ancor oggi ispirazione. E così come Agata ha salvato Catania da lave e terremoti, e ispirato la Sicilia nelle rivoluzioni nazionaliste (“Sant’Agata e l’indipendenza della Sicilia, viva!” fu codesto il grido dei rivoluzionari che nell’estate del 1837 innalzavano sul pinnacolo del Duomo il vessillo giallo e rosso con la triscele, nell’insurrezione sanguinosamente repressa dai Borboni…), così possa in questi giorni di tribolazione salvare i Siciliani tutti, e i suoi figli più vicini di Catania, dalle difficoltà: lei che ha la predilezione per gli umili e i bisognosi, per i malati, per coloro che sono ristretti in cattività (come ha scritto un poeta coevo, Onarfe Dagoro, “spoglia dell’oro, fanciulla dei poveri, sei degli ultimi la finale speranza”), sia nel suo ritorno tra la gente prodiga di attenzioni.
Molte lacrime, silenti e vistose, si spargono ultimamente alla vista e al passaggio del fercolo argenteo della Santa: sono le lacrime di chi non ha più nulla, ma non ha cessato di credere: o che vuole credere, anche contro ogni evidenza. Per tutti, con i versi del noto Inno (le cui parole sono del camporotondese naturalizzato catanese Antonio Corsaro, Sacerdote illuminato e di libero pensiero, intellettuale finissimo amico di Pasolini, Pound e Ungaretti: insegnò letteratura francese a Palermo, è morto nel 1995) che si canta per le strade, ella è colei che “splende in Paradiso, coronata di vittoria… o Sant’Agata, la gloria, per noi prega, prega di lassu!”.

(Articolo pubblicato sul quotidiano online LinkSicilia: http://www.linksicilia.it/2014/02/catania-e-la-sicilia-riabbracciano-agata-la-santa-in-giro-fra-il-popolo-il-4-e-5-febbraio/)

Le prime due istantanee sono state scattate dall'autore del blog la mattina del 4 nel 'piano della Statua', l'ultima  nel pomeriggio in via del Plebiscito, a Catania...

martedì 21 gennaio 2014

Tradizione ebraica e identità siciliana nel Purim di Siracusa celebrato nella Sinagoga aretusea

Tradizione ebraica e identità siciliana nel Purim di Siracusa celebrato nella Sinagoga aretusea

21 gen 2014,  di Francesco Giordano                     



 Una bella e intensa cerimonia religiosa e culturale si è svolta il 19 gennaio, 5774 del calendario ebraico, nella Sinagoga di Siracusa, per celebrare il Purim, ovvero la festa delle Sorti. Chiunque conosca la Bibbia non di nome ed abbia letto il libro di Ester, considerato fra i canonici sia nella tradizione davidica che in quella cristiana, apprende la storia documentata e fondata della Regina Ester che salva il popolo di Israele, a rischio di essere sterminato per l’invidia del malvagio Aman, dalle truppe del sovrano di Persia: e come per questo Ester fu strumento di Dio. La ricorrenza è particolarmente sentita in tutto il mondo ebraico.
Anche in Sicilia, segnatamente a Siracusa dove dal 2008, dopo oltre 500 anni dalla malaugurata espulsione dei figli di Giuda dalla nostra isola a seguito dell’editto di Granada (1492), è sorta la Sinagoga, per forte e appassionata volontà di un uomo mite ed energico, che le generazioni presenti e future hanno e ricorderanno come l’architetto della ricostruzione del Tempio del Supremo in terra di Trinacria: il Rabbino prof. Stefano Di Mauro, tornato in Sicilia dopo cinquant’anni di vita vissuta a New York, medico e nella città statunitense capo rabbino della Sinagoga B’nei Isaac, oggi capo Rabbino di Sicilia.stella david
Abbiamo avuto l’onore di essere invitati alla suggestiva e partecipata cerimonia, nei locali ricostruiti dal Rabbino, in via Italia a Siracusa. Nella memoria, echi dell’atto unico che un filosofo meridionale e libero pensatore, Giovanni Bovio, vergava nel XIX secolo, il dramma “Cristo alla festa di Purim”; eravamo consci della importanza dell’evento, ma ci ha colpito la valenza fraterna, autentica, di ricerca storica e polisemica e pluralista del Purim siracusano. Come è stato spiegato nel corso della festa, prima della lettura della meghillà -serbata in un rotolo-, ovvero la storia della salvezza, la genesi del Purim siculo fu in auge dopo la diaspora, allorchè la particolare ricorrenza veniva celebrata dagli ebrei rifugiatisi a Salonicco e Giannina, in terra ottomana; e se valenti studiosi all’inizio del XX secolo hanno riconosciuto la importanza della meghillà siracusana nella ricerca filologica del Purim siculo-ebraico, è altresì merito del Rav Di Mauro e della Comunità tutta (lode agli attenti collaboratori del Rav, a iniziare dal giovane Gabriele Spagna), aver riportato a’ fasti dei secoli passati la lettura della storia in cui un traditore convertito, cerca invano di mettersi in luce col sovrano a Siracusa ai danni del suoi popolo: però l’inganno viene scoperto e lui doverosamente punito. Il nome di costui è esecrato attraverso dei suoni sincroni provocati da particolari strumenti che agitammo, a mo’ di segnacolo esecrabile. Tale segno non è lontano da altri che in alcune cerimonie documentano passaggi sacri di iniziazioni e rinascite. Rabbino e Assessore Giansiracusa
 Il Purim di Siracusa del 2014, festeggiato dal 2011, oltre alla numerosa comunità ebraica intervenuta in sinagoga, ha veduto il riconoscimento del Comune aretuseo, con l’Assessore Giansiracusa che in tale sede ha portato l’impegno dell’amministrazione nel voler rendere disponibile apposito terreno per la costruzione di una nuova Sinagoga: sottolineando altresì che, se in Comune si discute per la realizzazione di una Moschea, a maggior ragione gli Ebrei di Sicilia, da duemila anni legati alla terra dalle tre punte, han diritto al riconoscimento pubblico. Intervennero pure rappresentanti degli Evangelisti e dei Cavalieri di Pitia, e il neurologo professor Vecchio precisò l’importanza del perseguimento della Pace universale, contro ogni fanatismo da qualunque parte provenga. Ciò che colpisce e meraviglia, a noi fautori di internazionalismo nonchè di sicilianismo, non è tanto l’aver udito tante lingue invocanti una sola sacralità, l’ebraico, il greco di Ioannina magistralmente letto in una lirica dall’appositamente intervenuto professor Guzzetta dell’Università di Catania, ma è anche la realtà incontrovertibile che per gli ebrei della Sinagoga siracusana la cultura e la lingua siciliana sono patrimonio della loro stirpe e contestualmente comune a tutti i popoli dell’Isola del Sole.
Quando il Rabbino Di Mauro ha rammentato che nel 1400 gli Ebrei siciliani parlavano, e scrivevano, la lingua sicula, oggi sovente e erroneamente declassata a dialetto, e i partecipanti intonavano con intensità “Vitti na crozza” e “la Pampina di l’aliva” nonchè la storia del Purim letta in siciliano moderno, noi pensavamo che tutti a quel tempo, dal Re all’ultimo scrivano, usavano il siciliano nei documenti diplomatici (persino la cancelleria vaticana rispondeva in siculo ai Vicerè), nonchè riflettevamo su quanta ignoranza v’è nella storiografia ufficiale, cristiana o laica che dir si voglia e maggioritaria, delle identità siciliane, le quali codesta piccola ma coesa e integrata comunità fa proprie, esalta e valorizza. Per queste ed altre importanti ragioni, non ultimo il fatto che la Sinagoga e il centro Sefardico Siciliano di Siracusa organizzano corsi di lingua e cultura ebraica (siti:centrosefardicosiciliano, e Sicilia ebraica), non si può che rendere grazie all’altissimo Adonai, che ha permesso alle luci della menorah di risplendere, come fu sin da ere primeve, in terra di Sicilia, dopo secoli di oblio. Non dimentichiamo che i sovrani Normanni furono maestri di tolleranza dopo la riconquista, e quando, per l’economia -come da noi ricordato nel volume “Progetto Sicilia”- si verificava l’espulsione degli ebrei dall’isola, la circolazione monetaria ed i commerci ebbero una contrazione vistosa e difficilmente rimediabile.
“Muoviti, favella, a raccontare e prodigi a professare: i Siciliani a ridestare; con vino falli ubriacare! Mangiate e bevete Siciliani! Che ciascuno faccia festa! Meraviglie fa il Dio nostro, Con gli Yehudim le compie… Gloria grande al Dio Signore che ai Giudei ha fatto grazia! Che ci invii Elia il profeta per il giorno Grande e Terribile”: con queste parole e il rituale Shalom, suggellato dai gustosi dolciumi che il banchetto finale del Purim non fa mai mancare, si compì una festa non solo ebraica, ma di tutti i siciliani, specie del popolo, dei poveri, come nella tradizione biblica si tramanda, laddove cadono dal trono i potenti e si esaltano gli umili. Tutti i buoni e i giusti, in libertà eguaglianza e fratellanza, sanno e condividono. Nella Luce.


(Articolo pubblicato sul quotidiano online LinkSicilia: http://www.linksicilia.it/2014/01/tradizione-ebraica-e-identita-siciliana-nel-purim-di-siracusa-celebrato-nella-sinagoga-aretusea/)