lunedì 22 giugno 2009

La bella Emma e l'eroe Nelson a Catania. Un curioso episodio.

Gli anni dal 1799 al 1814 videro la Sicilia al centro della politica mediterranea dell'Europa e, per la ininterrotta guerra che gli stati del Continente capitanati dall'Inghilterra mantennero contro Napoleone Bonaparte e la Francia repubblicana ed imperiale, la nostra isola ebbe il privilegio di costituire non solamente l'indispensabile base delle operazioni navali contro l'Armata francese, ma anche beneficiò delle riforme economiche, politiche e sociali connesse. Il culmine di ciò si ebbe con la costituzione siciliana del 1812, concessa mercé il volere di S.M. Britannica ed imposta al riluttante Ferdinando, che per sdegno nominò vicario generale del Regno (il napoletano occupato dal Murat) il figlio Ferdinando. Ma questa situazione è diretta conseguenza dei due grandi combattimenti navali che diedero alla Home Fleet il predominio mondiale sulle acque mediterranee: ovvero la battaglia di Abukir (estate 1798) e quella di capo Trafalgar (ottobre 1805), dovute al genio militare dell'ammiraglio Horatio Nelson.
La figura fulgida di questo eroe indimenticabile, è indissolubile con quella della Sicilia, in quei giorni 'inglesizzata'. I marinai della flotta britannica infatti per ben due volte protessero la Sicilia e la famiglia Reale borbonica dalle invasioni dei ribelli giacobini e dell'esercito dell'Impero, costituendo il baluardo della libertà e della tolleranza civile, in anni di abbandono e di barbarie generalizzata. Dopo la grande vittoria colta nella rada egiziana dalla flotta del Nelson sulle navi napoleoniche, abbandonato malvolentieri il generale di là dalle piramidi, avendo avuto notizia "di alcuni scontri che essi chiamano grandi vittorie", l'ammiraglio fa ritorno a Napoli. Da lì protegge la ritirata della famiglia Reale a Palermo e, dopo la riconquista del regno nella primavera del 1799 ad opera delle truppe sanfediste del cardinale Ruffo e del presidio formidabile delle navi inglesi a Procida Ischia e Capri, riporta i sovrani sotto il Vesuvio, mentre il popolo festante intona la celeberrima melodia "Torna maggio".
Nominato in quell'agosto, tra il tripudio generale della popolazione che appare, dalle lettere dei contemporanei, esaltato sino al parossismo, duca del feudo di Bronte da re Ferdinando, Horatio Nelson ne va immediatamente fiero, non solamente per il significato del nome (il ciclope del Tuono) che si ricollega alla sua infermità -sin dal 1794, causa l'assedio di Calvi, è orbo dell'occhio destro: ed a Teneriffa nello stesso anno, perderà il braccio- , ma anche per l'alto grado del titolo (e per la rendita di tremila sterline del feudo), adeguato a quanto egli stesso si sarebbe aspettato dal suo governo, che invece per la magnifica vittoria dell'Oriente si degnò concedergli il non brillantissimo titolo di barone del Nilo e Visconte di Burnham Thorpe (il villaggio natale). Egli fu ed è nondimeno il più popolare condottiero che la Gran Bretagna abbia mai avuto. E tuttavia, più d'ogni cosa al mondo, il valoroso combattente che non ebbe fortuna nel focolare domestico, trovò la devota affezione, l'amore a tratti eccessivo ma prepotentemente sincero di Emma Hamilton, a quel tempo moglie dell'incaricato d'affari inglese a Napoli, la donna più bella di quegli anni. Così Volfango Goethe la descrisse nel 1787, ammantata del peplo ellenico : "... per vero dire ch'ella è propriamente bella di figura e di persona... il vecchio cavaliere... trova in quella giovane tutti i pregi dell'arte antica, il profilo delle monete siciliane e quello pure, io credo, dell'Apollo del Belvedere...". Se a tanta soave bellezza, alle doti in lei circonfuse del canto e della passione intrepida che con buona dose d'ingenuità metteva nel suo ruolo di tramite fra la Regina Maria Carolina ed il marito, quale indispensabile fonte di informazioni per il gabinetto di San Giacomo, si unisce la volontà del glorioso ammiraglio di desiderare, come egli le scrisse mentre bordeggiava le coste danesi (era il 1801) "la pace, ed allora partiremo per Bronte... in dodici ore avremo attraversato le acque... nulla potrebbe impedirmi di andarvi...", può ben comprendersi la passione impetuosa che li unì d'amore profondo ed immortale. Passione coronata dalla figlia Horatia, lungamente amata: Nelson volle legare entrambe "al Re ed al Paese" affidandole alle cure, poi non corrisposte, del governo britannico.
Questa la situazione in quei giorni, indispensabile premessa per la chiara comprensione di un curioso episodio occorso a Catania, dove sovente il Nelson con le sue navi (dall'agosto 1799 al gennajo 1800 più spesso, poiché esercitò le funzioni di Comandante in Capo della Home Fleet nel Mediterraneo) attraccava, ancorandole al largo delle scogliere dell'Armisi e della "porta di ferro", entrando nell'abitato per il piano della Statua. In quelle settimane egli si riforniva in città per alimentare l'assedio della Valletta, a Malta, ove resisteva una guarnigione francese, che avrebbe presto capitolato. Lo speziale Salvatore De Gaetani, della cui famiglia esiste ancora la farmacia (qualche isolato più in giù di allora), in via Vittorio Emanuele nel rione Civita, ebbe modo di curare una tipica forma di malanno dei marinai detta scorbuto, ricevendo le lodi dall'ammiraglio. Sembra anzi che questi donò del metallo di cannoni francesi, da cui il De Gaetani trasse un mortajo ancora esistente in farmacia. Ma pare leggenda, perché la data incisa nel bordo (all'incontrario) del manufatto è il 1842.
In una delle frequenti visite in città (narrano le cronache pettegole dell'epoca, in particolare quella dei Cristoadoro, i cui manoscritti sono custoditi dalla Biblioteca Regionale Universitaria della città etnea) Nelson e la Hamilton, accompagnati dal vecchio Sir William, furono ospiti nel palazzo dei baroni Massa principi di San Demetrio, il più sfarzoso dei cosiddetti "quattro canti" etnei (in parte rifatto dopo il bombardamento aereo del 1943). Nella corte dell'edificio, come era d'uso, s'ergeva un teatrino privato: e vi fu chi riferì che Emma ebbe ivi l'opportunità di esibirsi in una danza al suono di arpe elleniche , ed innanzi all'estasiato Nelson ed ai convenuti dell'aristocrazia rimase letteralmente senza veli, così da poterne osservare le morbide fattezze! Ciò, come si immagina, destò ulteriore chiacchiericcio per la già discussa relazione: la quale tuttavia si protrasse per la rimanente vita di Nelson.
Se infine egli non fosse caduto al servizio della Patria e dell'Europa a Trafalgar, i suoi stessi scritti ci permettono di affermare che avrebbe concluso serenamente i suoi giorni sotto il cielo poetico e stellato della ducéa alle falde dell'Etna, contemplando l'Orsa fra le braccia della bella Emma. Il destino decise però diversamente, ed il Tempio di San Paolo a Londra venera ognora colui che il poeta Giovanni Meli chiamò "anglu-sicanu eroi".




Nota: Questo articolo di Francesco Giordano è stato stampato, in edizione leggermente ridotta, a pagina 40 della rivista "La Provincia di Catania – organo ufficiale della Provincia regionale", anno XXI numero 2, febbraio 2003, con il titolo "La dolce vita catanese dell’Ammiraglio".

mercoledì 3 giugno 2009

Un gioiello della architettura settecentesca di Catania: il palazzo Fassari Pace

Il palazzo Fassari Pace può essere considerato come splendido esempio di architettura civile settecentesca, nella ricostruzione di Catania dopo il disastroso terremoto che totalmente la distrusse, l’undici gennaio del 1693. E’ la prima volta in assoluto che se ne descrive l’esistenza, in un percorso ideale di valorizzazione del patrimonio artistico delle città barocche di Sicilia e d’Italia. Ubicato nella parte alta di via Vittorio Emanuele, già strada del Corso reale, asse viario il più vetusto della Catania sin dall’antichità ellenica, il palazzo si apre su quest’ultima nella sua facciata ariosa e semplice di barocco classicheggiante, angolando tra le vie Santa Barbara e della Palma, rivolto a sud; al nord è costeggiato dalla via San Barnabà, da cui si accede per via della Palma; nel Settecento era nella parte interna ornato da un giardino, oggi scomparso. E’ accanto all’ex convento della Trinità, oggi sede del liceo scientifico Boggio Lera, impreziosito dalla omonima chiesa.
La sua costruzione si può far risalire con certezza al primo trentennio del XVIII secolo: tuttavia sin da prima del devastante terremoto e dalla eruzione lavica del 1669 che invase il perimetro urbano (ma non il luogo ove sorge il palazzo), erano ivi presenti, seppure il vecchio Corso aveva un tracciato non lineare ma leggermente sinuoso, abitazioni di fattura similare. Ciò può vedersi nella pianta di Catania pubblicata dal Cluverio (Sicilia antiqua, Leida) nel 1619. La presenza del severo e maestoso palazzo settecentesco, nei suoi due primi ordini, terrano con le botteghe, e piano nobile caratterizzato dalle cornici degli otto balconi che si affacciano nella pubblica via, con disegno rettangolare sovrastante, è rintracciabile nelle due piantine di riferimento, che lo vedono con esattezza delineato: quella di Giuseppe Orlando, stampata nel 1760, e quella (del medesimo periodo, poiché l’autore moriva nel 1762) che è inserita nel testo Lexicon topographicum siculum, dell’erudito abate Vito Maria Amico Statella. In tali disegni accurati degli edifizi della città, sorta con stile quasi militare per volontà del duca di Camastra Giuseppe Lanza, vicario generale del Regno per volere del Viceré de Uzeda, l’ingegnere militare Grunemberg ricalcò sostanzialmente gli schemi delle strade principali esistenti prima del sisma, la più importante delle quali, per la presenza del teatro greco romano e la salita verso i Benedettini nonché il collegamento verso il mare, è proprio via Vittorio Emanuele, si notano nitidamente i palazzi eretti e lo stato dei lavori all’epoca della stampa. Il palazzo Fassari Pace era allora stato costruito solo nella sua parte centrale: mancava il secondo piano, probabilmente concepito sin dal disegno originario,che sarà completato tra il XVIII ed il primo trentennio del XIX secolo: come attesta la pianta di Catania di Sebastiano Ittar, edita nel 1833. Pertanto la forma definitiva dell’edificio si può datare a quest’ultimo periodo. Le sopraelevazioni che si notano oltre il secondo piano sono opera del primo Novecento, con evidenti scopi commerciali. E’ da precisare altresì che l’abbassamento del livello delle strade di Catania, negli anni 1870-71 voluto dal governo nazionale con obiettivi eminentemente speculativi (perciò controversi e contestati all’epoca), ha modificato il disegno della facciata. Sia il portone centrale d’ingresso che quelli laterali di via della Palma e via Santa Barbara sono stati abbassati; i primi due rimangono tuttora sovrastati da finestroni ovali detti ad occhio di bue, l’ultimo ha un balconcino.
L’autore del palazzo può essere identificato, per lo stile e per le modalità di costruzione e per i materiali, nonché attraverso indizi raccolti in svariati documenti, in Francesco Battaglia, forse il più grande maestro costruttore della Catania settecentesca, architetto di Casa del Principe Ignazio Paternò Castello di Biscari nonché dei Benedettini. E’ anche possibile che l’opera sia in parte del figlio Antonino, rifinita altresì dal nipote Carmelo Battaglia Santangelo (dallo stile più classico: sua è la sistemazione del finestrone centrale della incompiuta facciata del Tempio di San Nicolò la Rena, ove lavorarono il cugino e lo zio): però i riscontri che avrebbero permesso di attribuirne con sicurezza l’autenticità furono purtroppo distrutti dall’incendio che devastò il Municipio, quindi l’Archivio Comunale, nel dicembre 1944. Al Battaglia si risale per molte ragioni, non ultima delle quali il ‘vederlo’ fisicamente all’opera non solo nella edificazione del complesso monastico dei Benedettini, ma anche per l’attiguo monastero della Trinità, nonché per ogni opera di architettura religiosa e civile dei dintorni che abbia maestà e tipologia, unitamente ai componenti della sua famiglia, il genero Stefano Ittar, i parenti Amato, i Biondo tagliapietre oriundi di Messina (Federico De Roberto, nella monografia del 1907 su Catania, lo chiama Francesco Battaglia Biondo).
Così la proprietà del palazzo è –sinché non si potranno effettuare approfondimenti attraverso documenti dal difficilissimo reperimento, qualora ancor vi siano- negli anni della edificazione, nebulosa: ma si può affermare che la committenza debba esser stata affatto nobiliare, di giurista o uomo di Chiesa, data anche la vicinanza e la similitudine plastica con il monastero delle suore benedettine della Trinità: nonché da deduzioni indirette avute consultando i regesti dell’Archivio di Stato di Catania, degli anni 1693-95.
Il nome che si attribuisce è quello degli ultimi proprietari dell’edificio unificato prima della divisione, i coniugi Pace (importatore di mercanzie varie in Catania) e Fassari, in specifico donna Irene, a capo nei primi del Novecento dell’Unione Femminile Catanese ed amica di Mario Rapisardi (che così le scriveva: "…non posso che lodare gli intenti pietosi di codesta istituzione ed augurarne pronti ed efficaci gli effetti… la bellezza della donna è uno dei più generosi spettacoli che la natura concede ai mortali…", 16 maggio 1909), la quale avendo perduto un figlio, si dedicò alla istruzione delle fanciulle.
La facciata del palazzo ha nel piano nobile otto balconi di stile classico sormontati nell’architrave da un rettangolo simbolico, forse in origine destinato ad essere decorato (solo uno di essi, al centro, ha degli stucchi floreali di stile Liberty), ariosi ma austeri come si addiceva al periodo, di cui solo i tre centrali –in una disposizione originale- sono racchiusi da unica ringhiera, rimanendo tre singoli verso ovest e due verso est: si rammenti che il piano terrano era nel Settecento quel che oggi si classifica per primo. Di notevole impatto scenico è il lunghissimo balcone del secondo piano, originalissima idea che può datarsi tra la fine del Settecento o primo Ottocento, per infoltire il numero degli spettatori alla festa più importante della città: infatti sino al 1926 da questo tratto di via Vittorio Emanuele, sino alla vicina ed allineata, nel piano detto della Consolazione o di San Cosimo, oggi piazza Machiavelli, chiesa di Sant’Agata alle Sciare (ove si svolgeva l’offerta votiva) saliva il fercolo di Sant’Agata, il giorno 4 di febbraio, nell’ambito del cosiddetto giro esterno. Fino al 1875, allorché lo Stato le fece sloggiare, le Benedettine della Trinità come gli Agostiniani più giù, erano allietati come i laici dal passaggio della processione agatina la quale toccava le dimora degli ordini ecclesiastici più importanti, ed i luoghi sacri.
Il palazzo Fassari Pace ha avuto, sempre nel piano nobile, una connessione interna delle stanze che lo compongono creando una ‘fuga’ scenica piuttosto singolare. Ciò sino agli anni Trenta del XX secolo, allorquando la proprietà lo divise in appartamenti, ‘tagliati’ in modo diverso e secondo discutibili criteri. Da allora l’edificio, dalle belle lesène di pietra calcarea come le cornici dei balconi, dalle paraste possenti degli angoli che svettano al sole del mattino e s’inondano dell’oro del tramonto, soffre di quella senescenza inevitabile, comune a quasi tutti gli edifici del Settecento catanese (si pensi a palazzo Reburdone, anche questo opera di Francesco Battaglia e specularmente affacciato sempre su via Vittorio Emanuele all’oriente angolando con piazza dei Martiri o piano della Statua, il quale ospita al suo interno sia uffici dell’Università, sia un modesto alberghetto affittacamere), non conservati nella loro interezza e in modo dubbio ammodernati. La sua presenza nondimeno ancor solenne nel contesto della antica strada del Corso, arricchisce il barocco catanese, di stile classico ed echeggiante spesso quello romano, donando nonostante il decadimento, quel profumo antico di segreta solennità.