Se i luoghi della memoria sono inondati di Luce sublime, quella luce proveniente dall’animo puro di coloro i quali, anche per breve tratto, albergano sulla terra spargendo i semi della conoscenza, allor si può dire, fugate le tenebre, dissolta la coltre dell’ignoranza, spalancate le porte della Libertà. Quale poi sia il concetto di quest’ultima e se a molti è dato di comprenderla nella sua essenza, è altra indagine. Parrebbe rinvoltolato in paesi lontani codesto incipit, se non si narrasse della mostra di pergamene e pubblicazioni a stampa concernenti Sant’Agata, corredata da una esposizione fotografica, inaugurata il 14 gennajo nei saloni delle biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero di Catania, allocata nell’ex monastero dei Benedettini. Quello "spazio fisico illustre, cui bibliotecari e lettori han serbato dignità e prestigio, che ha ormai un’identità storica percepibile" (scriveva nel 1992 l’illustre professor Giarrizzo nella presentazione al catalogo dei periodici della medesima), è da alcuni anni sede di importanti manifestazioni. Continuando su tale via, proseguendo la mostra "Scienze ed arti in Sicilia nel XVIII secolo", inaugurata lo scorso dicembre e sino a primavera allestita nella splendida sala Vaccarini, l’esposizione di fogli volanti, opuscoli, documenti e libri concernenti l’Iside catinense (è oramai storicamente accertata la derivazione del culto agatino da quello isiaco: anche se ciò può ad alcuni inclini al fanatismo, ma tale nebula confidiamo sia vieppiù dileguata, dispiacere) che appellasi "la buona", dall’etimologìa ellenica. Agata la vergine e protettrice della città da mille ed ottocento anni ivi rivive, nelle poesiole, nelle stampe coeve, nelle pubblicazioni ingenuamente celebrative, esposte con la solita cura e la particolare passione che la contraddistingue, dalla Direttrice della biblioteca Rita Carbonaro (coadiuvata dalla dottoressa Di Mauro e dallo staff di giovini e gradevoli ragazze ‘stagiste’ che, in momenti difficili per le casse comunali, mercé la collaborazione della attigua Facoltà di Lettere, collaborano al funzionamento della struttura), la quale in questo come in tutti i suoi interventi, riesce in poco tempo e col massimo impegno a costruire ex novo una immagine gradevole e simpatica della biblioteca, che deve accogliere il pubblico con garbo e socialità.
Ci parse estremamente appassionante, al riguardo, l’esposizione (di cui riportiamo una istantanea) della pergamena originale con suggello in ceralacca del 1195, un privilegio e conferma in favore del Vescovo di Catania e della chiesa di S.Maria Rovere Grumo, di un molino in territorio di Adernò, concesso già in privilegio da Re Guglielmo: è un provvedimento, anno primo del regno di Arrigo VI Imperatore e Re, della Regina Costanza d’Altavilla sua consorte, "Dei gratia Imperatrix sempre augusta et Regina Siciliane". E’ quella "Costanza imperatrice" (Purg. III, 113) ricordata da Manfredi poiché sua celebre nonna, e madre dell’Imperatore ‘stupor mundi’ Federico II, la quale ricorda con passione, da ultima discendente della Casa Reale normanno-sicula degli Altavilla che per prima (dopo la riconquista della Sicilia dalla dominazione mussulmana) la dinastìa sua eresse –e ne vòlle abate il benedettino Ansgerio- il tempio supremo ad Agata, nella platea magna del Duomo. La conferma del dono di un molino oggi forse parrà poca cosa: non così nel XII secolo, quando era vivo Francesco d’Assisi e ben si conosceva il valore del pane. Altra pergamena in esposizione è quella della regina Maria d'Aragona, che concede ulteriore privilegio a Sant'Agata, del 1393. Vi è poi il foglietto volante dell’Ode a Sant’Agata che il quindicenne Mario Rapisardi (ivi però risulta coll’autentico cognome di Rapisarda) fece gettare dai balconi del palazzo Tezzano di piazza Stesicoro il 4 febbrajo del 1859, poesia già frutto di reprimende da parte del censore borbonico, nonché primo –ma inane- ramuscello della ben più copiosa, e densamente poetica, produzione dei decenni successivi (del resto, egli mai vòlle riconoscere tale componimento, che infatti non compare nella edizione definitiva delle opere). Tali documenti si trovano esposti nella sala di lettura; mentre nel refettorio piccolo alcune bacheche custodiscono i preziosi manoscritti della nota cronaca delle festività agatine dei Cristoadoro, della metà del XIX secolo; in altre teche libri coevi sulla storia della Santa etnea, ed un simpatico angolo con taluni pieghevoli di feste private che un noto mecenate catanese, il Barone Mario Ursino, ha recentemente organizzato nella sua magione. E’ in ogni caso una esposizione variegata, la quale alfine si arricchisce di ventidue istantanee del fotoamatore Salvo Sallemi, a colori ed in bianco e nero –quest’ultimo estremamente più significativo-, le quali colgono momenti essenziali e vividi delle festività che si dipanano nei giorni di febbraio, trasmettendo allo spettatore un crescendo notevole di emozioni e di impressioni, che difficilmente la narrazione verbale riesce a donare. Può anzi affermarsi, come si disse nella dissertazione amena che avemmo coll’autore, che il bianco e nero delle foto sta all’ascolto della radio, come il colore si può paragonare all’invasione barbarica delle trasmissioni televisive. E’ il popolo di Catania, quel popolo particolarissimo, che nelle foto emerge e trionfa: il vero ed autentico popolo dei devoti, il medesimo nel trascorrere dei millenni, grossolano còlto aristocratico nella sua eloquente barbaricità, dènso di spontaneità autentica, quasi oltre il muro del tempo: dal ‘navigium Isidis’ di Apulejo alla passeggiata della Marina del fercolo, l’afflato supremo, oltre i dogmi e le superfetazioni, rimane inalterato.
Riguardo la visione tecnica delle fotografie, unico punto dolente –che però solo l’occhio acutissimo può cogliere-, e tuttavolta quasi inevitabile a causa della incombente modernità, è l’uso del digitale, che ha da qualche anno soppiantato, ma non fatto tramontare, la pellicola. Le opere fotografiche di Salvo Sallemi, componente della associazione civica di fotoamatori ACAF la quale ha in preparazione un catalogo ove saranno inserite, sia per il loro dinamico movimento quasi scenico, sia per la non comune tecnica di prospettiva, meritano ampia visibilità: una occasione del genere è senza dubbio alcuno congeniale al fine di farne conoscere le caratteristiche.
Nondimeno, mentre il battito dell’ali della grande aquila del Monastero ora deve trovare altri e più silenziosi rifugi, per costruirsi la propria tana, che non sia il tònfo vanìto del portale che immette nella sala Vaccarini, noi rammentiamo, con le parole di uno dei suoi studiosi migliori, il professor Antonio Di Grado, con riferimento alla biblioteca, il passaggio di Federico De Roberto che –forse svogliato bibliotecario aggiunto, negli anni 1894-95- non si peritò solo di ambientare, nella intiera cornice del monastero, il suo prospettico romanzo, ma vide sempre come "quei luoghi potevano assurgere perfino a scena primaria, a privilegiato fondale, per quel poco che possiamo saperne, di rivisitazioni oniriche, d’incubi che sono le prime esemplari narrazioni del disagio derobertiano, della sua tormentata iniziazione, del suo romanzo familiare" (in La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo, Catania 1998, pag. 230\31). E’ un romanzo familiare, un percorso dell’anima che coinvolge quanti di noi sentono ruggire dentro il genius loci. Che narra, oltre il gioco di ombre e silenzi rarefatti da ricongiungere e delicatamente ricostruire come impalpabile tela di aracne, sempre e sempre d’amore.
Ci parse estremamente appassionante, al riguardo, l’esposizione (di cui riportiamo una istantanea) della pergamena originale con suggello in ceralacca del 1195, un privilegio e conferma in favore del Vescovo di Catania e della chiesa di S.Maria Rovere Grumo, di un molino in territorio di Adernò, concesso già in privilegio da Re Guglielmo: è un provvedimento, anno primo del regno di Arrigo VI Imperatore e Re, della Regina Costanza d’Altavilla sua consorte, "Dei gratia Imperatrix sempre augusta et Regina Siciliane". E’ quella "Costanza imperatrice" (Purg. III, 113) ricordata da Manfredi poiché sua celebre nonna, e madre dell’Imperatore ‘stupor mundi’ Federico II, la quale ricorda con passione, da ultima discendente della Casa Reale normanno-sicula degli Altavilla che per prima (dopo la riconquista della Sicilia dalla dominazione mussulmana) la dinastìa sua eresse –e ne vòlle abate il benedettino Ansgerio- il tempio supremo ad Agata, nella platea magna del Duomo. La conferma del dono di un molino oggi forse parrà poca cosa: non così nel XII secolo, quando era vivo Francesco d’Assisi e ben si conosceva il valore del pane. Altra pergamena in esposizione è quella della regina Maria d'Aragona, che concede ulteriore privilegio a Sant'Agata, del 1393. Vi è poi il foglietto volante dell’Ode a Sant’Agata che il quindicenne Mario Rapisardi (ivi però risulta coll’autentico cognome di Rapisarda) fece gettare dai balconi del palazzo Tezzano di piazza Stesicoro il 4 febbrajo del 1859, poesia già frutto di reprimende da parte del censore borbonico, nonché primo –ma inane- ramuscello della ben più copiosa, e densamente poetica, produzione dei decenni successivi (del resto, egli mai vòlle riconoscere tale componimento, che infatti non compare nella edizione definitiva delle opere). Tali documenti si trovano esposti nella sala di lettura; mentre nel refettorio piccolo alcune bacheche custodiscono i preziosi manoscritti della nota cronaca delle festività agatine dei Cristoadoro, della metà del XIX secolo; in altre teche libri coevi sulla storia della Santa etnea, ed un simpatico angolo con taluni pieghevoli di feste private che un noto mecenate catanese, il Barone Mario Ursino, ha recentemente organizzato nella sua magione. E’ in ogni caso una esposizione variegata, la quale alfine si arricchisce di ventidue istantanee del fotoamatore Salvo Sallemi, a colori ed in bianco e nero –quest’ultimo estremamente più significativo-, le quali colgono momenti essenziali e vividi delle festività che si dipanano nei giorni di febbraio, trasmettendo allo spettatore un crescendo notevole di emozioni e di impressioni, che difficilmente la narrazione verbale riesce a donare. Può anzi affermarsi, come si disse nella dissertazione amena che avemmo coll’autore, che il bianco e nero delle foto sta all’ascolto della radio, come il colore si può paragonare all’invasione barbarica delle trasmissioni televisive. E’ il popolo di Catania, quel popolo particolarissimo, che nelle foto emerge e trionfa: il vero ed autentico popolo dei devoti, il medesimo nel trascorrere dei millenni, grossolano còlto aristocratico nella sua eloquente barbaricità, dènso di spontaneità autentica, quasi oltre il muro del tempo: dal ‘navigium Isidis’ di Apulejo alla passeggiata della Marina del fercolo, l’afflato supremo, oltre i dogmi e le superfetazioni, rimane inalterato.
Riguardo la visione tecnica delle fotografie, unico punto dolente –che però solo l’occhio acutissimo può cogliere-, e tuttavolta quasi inevitabile a causa della incombente modernità, è l’uso del digitale, che ha da qualche anno soppiantato, ma non fatto tramontare, la pellicola. Le opere fotografiche di Salvo Sallemi, componente della associazione civica di fotoamatori ACAF la quale ha in preparazione un catalogo ove saranno inserite, sia per il loro dinamico movimento quasi scenico, sia per la non comune tecnica di prospettiva, meritano ampia visibilità: una occasione del genere è senza dubbio alcuno congeniale al fine di farne conoscere le caratteristiche.
Nondimeno, mentre il battito dell’ali della grande aquila del Monastero ora deve trovare altri e più silenziosi rifugi, per costruirsi la propria tana, che non sia il tònfo vanìto del portale che immette nella sala Vaccarini, noi rammentiamo, con le parole di uno dei suoi studiosi migliori, il professor Antonio Di Grado, con riferimento alla biblioteca, il passaggio di Federico De Roberto che –forse svogliato bibliotecario aggiunto, negli anni 1894-95- non si peritò solo di ambientare, nella intiera cornice del monastero, il suo prospettico romanzo, ma vide sempre come "quei luoghi potevano assurgere perfino a scena primaria, a privilegiato fondale, per quel poco che possiamo saperne, di rivisitazioni oniriche, d’incubi che sono le prime esemplari narrazioni del disagio derobertiano, della sua tormentata iniziazione, del suo romanzo familiare" (in La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo, Catania 1998, pag. 230\31). E’ un romanzo familiare, un percorso dell’anima che coinvolge quanti di noi sentono ruggire dentro il genius loci. Che narra, oltre il gioco di ombre e silenzi rarefatti da ricongiungere e delicatamente ricostruire come impalpabile tela di aracne, sempre e sempre d’amore.
FGio
Nota: Le fotografie della festa di Sant'Agata sono di Salvo Sallemi, qui riprodotte per gentile concessione; quelle del salone della biblioteca e della pergamena, sono dell'autore dell'articolo.
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