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Natale 2013: Mario Rapisardi, "In vigilia nativitatis Domini"
Siamo stati sempre persuasi che il Natale, già Dies Natalis Solis Invicti Mithra e poscia giorno della nascita del Maestro in Israele assurto a Re dell'olimpo Cattolico, sia una festa della Luce. E la Luce è degli ultimi, dei più poveri, in ispirito e materialmente. Vera la frase dell'Unto, che serba il "regnum coelorum" per loro.
Miglior ricordo non può perciò esservi, in codesto blog rapisardiano dalle origini, che celebrare il Vate dell'italica Poesia nel XIX secolo, con una delle sue liriche più incisive, ove l'afflato per gli irredenti è contrapposto all'epa croja della borghesia arricchita, contro cui sempre il Rapisardi si scagliò in modo veemente e sferzante. L'attualità del quadro della lirica che segue è evidentissima ancor oggi, nel XXI secolo, pur essendo stata pubblicata nella raccolta 'sociale' "Giustizia" nel 1883.
Laus tibi, Mario. La tua voce e la tua Luce ancora risplende, "sotto a' firmamenti, eterna". Anche nel Natale.
* L'istantanea è del 1911: Mario Rapisardi è nella terrazza della casa di via Etnea alta, presso il roseto.
In vigilia nativatis Domini
Essi son là, seduti in giro al verde
Tappeto; in man le carte
Ha Crispo, il baro gentiluom che perde
Il primo giorno ad arte.
Di contro a lui Mena sbuffante e rosso
Squadra la faccia arcigna;
L’audace seduttor Celio a ridosso
Fuma l’avana, e ghigna.
Fonde Miron la facultà sua nova,
E con gentil contegno
I baffi arriccia, e dà publica prova
Che del suo stato è degno.
La nuova sposa intanto a un nuovo damo
Uccella, e cauta il piglia
Al cubàttolo, e aggiunge qualche ramo
A l’alber di famiglia.
Sgrana Clodio il cisposo occhio, ed ammicca
Al sozio, chè con frasche
Accorte fra di lor Livio si ficca
Visitator di tasche.
Nè Fulvio manca il nobile bardassa
Dal medicato crine,
Che l’oro vinto rastellando ammassa
Con le rosee manine;
Mentre il rubesto Lio, mèsso a le strette
Per angustia del loco,
Gli si cuce a le groppe ritondette,
Pensando a un altro gioco.
Qui il baronetto da l’ambigua razza
Pallido ride e scocca
Arguzie, ed a supplir quel che biscazza
Altr’oro a Taide scrocca.
Bieco troneggia a canto a lui maestro
Sosia, l’ingentilito
Sensal, che perde men, benchè mal destro,
Di quanto ha il dì rapito.
Là il vecchio Grifio da la spelacchiata
Zucca ritinta e da la
Barba verdastra la sua posta guata,
E se perde s’ammala.
E intorno intorno, sporgendo il sembiante
Ebete, la moneta
Trepido gitta e mormora il galante
Armento analfabeta.
Nè perchè per le folte sale prave
Stagnino l’aure, e i lumi
Rossi usurpino l’aria ultima, grave
Di rei flati e di fumi,
O per la notte in nero agguato a l’uscio
Sotto il nevoso azzurro
Li abbranchi, ad onta del velloso guscio,
Il frigido cimurro,
Men protraggono il ludo arduo. Non vide
La Patria, è ver, nei suoi
Trionfi e ne le sue fortune infide
Questa matta d’eroi;
Non però de la Patria essa è men degna,
Men generosa e forte,
Se in altri campi e sotto ad altra insegna
Sa dispregiar la morte.
Oh viva! E tu fra tanto a la gentile
Ammassa oro, e con epa
Digiuna su’l piccone e su’l badile,
Sozza canaglia, crepa.
O, se l’ora notturna ozio concede
A le tue membra fiacche,
Corri a mugghiar del vecchio nume al piede
Le tue preci vigliacche.
Ma non più, ma non più nascer vedrai
Su’l consueto strame
Il novo Dio: troppo ha sofferto omai
Dal freddo e da la fame;
Troppo del Fariseo tristo il flagello
Esercitò le prone
Spalle. Ei rinasce: il mansueto agnello
Tramutasi in leone;
E rugge e lascia il nero antro. I palagi
Tremano a’ suoi ruggiti,
E quei che nuotan fra delizie ed agi
Guatansi inorriditi;
Guatansi. Da le rie mani a costoro
Cadono le segnate
Carte; le granfie gittano su l’oro...
Qui, qui da le sudate
Officine, da’ campi a voi fecondi
Di triboli e di fame,
Larghi d’ozj e d’amori inverecondi
A l’aureo vulgo infame;
Dal famelico mar, da’ covi in cui
Co’ figli e la consorte
Marcite, da le grotte ove ad altrui
Scavate oro, a voi morte,
Qui, qui irrompete, o tristi greggie umane,
O vecchi, o spose, o madri,
O bimbi senza vesti e senza pane,
Ai ladri, ai ladri, ai ladri!
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