La grandezza di taluni uomini straordinari, che in certi tempi della storia umana contribuirono a reggerne le sorti, scrivendo il destino della collettività, si misura certamente col trascorrere del tempo. E in questo frangente, cresce e si amplifica il sentimento del medesimo. Così viene pure accentuata, di molti, la solitudine, la fragilità, parimenti risaltate dalla fermezza e dalla risolutezza che seppero dimostrare nelle ore difficilissime.
E’ il caso del Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Lo spunto, da noi preso a pretesto onde qui brevemente indagare su taluni aspetti della sua figura, è quello del sessantennio dalla morte (28 dicembre 1947, nell’esilio di Alessandria d’Egitto). Pare tuttavolta che la sua lunga vita, nei quarantasei anni di regno della Patria comune, voglia racchiudere molteplici significati, ancor oggi vivissimi nelle carni del popolo italico. Basti riflettere ad un solo dato, banalissimo ma inequivocabile: almeno il 30-40 per cento della attuale cittadinanza, oramai anziana, nacque sotto il suo regno. Si può da ciò arguire quanta influenza ebbe quel periodo, primo cinquantennio del secolo XX, la cui ombra sovrasta e copre la seconda metà, le cui conseguenze –quindi le rendite, in ogni senso inteso il termine- sono anche nel primo decennio del XXI secolo fonte di vita, come senza fallo lo saranno nel futuro.
Un uomo schivo e solitario, fermo e di grande carattere, è descritto il Re d’Italia da molti biografi. Se ci si limita alla pubblicistica quasi ufficiale: i diari e le memorie ne mostrano invece l’aspetto più umano, aperto a scatti a confidenze e riservatezze di carattere personale, alle quali la rigidissima educazione militare, l’aura degli anni in cui nacque, la consapevolezza del ruolo, quel nome che fu del ‘Re Galantuomo’, artefice dell’Unità della Nazione, gli imponevano ed a’ quali non poteva sottrarsi a nessun costo. Sebbene egli non desiderò regnare: vi fu costretto dalla sorte, tragica alfine: le recenti pubblicazioni hanno altresì dimostrato che financo il padre, quell’Umberto I che con giusta causa si è tramandato essere il ‘Re buono’, non amò regnare. Dovette nondimeno ascendere al trono, il che vide come una infausta fatalità, un fardello pesantissimo: infatti, dall’attentato di Passanante (1879) a quello risolutivo di Bresci (29 luglio 1900), fu per lui un percorso aspro. In questo clima, con l’Italia abbattuta dalle delusioni seguite all’entusiasmo risorgimentale (di cui è testimonianza eloquente, fra le altre, il romanzo "I vecchi e i giovani" di Luigi Pirandello), nasceva in Napoli, l’undici novembre del 1869, Vittorio Emanuele, che di Principe della capitale del Sud prendeva il titolo (così l’augusto nipote ed attuale capo di Casa Reale). Era allora la città del golfo, autenticamente la più dolce e bella città d’Italia, ancor splendente del fasto borboniano: i Savoja, recentemente ascesi al Trono della Patria mercé l’opera di unione autoritaria che ebbe in Garibaldi e Re Vittorio Emanuele II, complice silente l’Imperatore francese Napoleone III, i soli veri artefici, intesero così, e ben vi riuscirono, ingraziarsi le poetiche e mirabolanti popolazioni meridionali, da sempre affezionate all’istituto monarchico. Non poteva esservi scelta migliore. Il bimbo, poi ragazzo, crebbe negli agi della sua funzione, primariamente istruito nelle lettere e scienze e soprattutto nell’arte della guerra, come fu nelle tradizioni di una casata guerriera come la sabauda, ove padre (valoroso combattente nella guerra del 1866: il De Amicis ne delinea un ‘cammeo’ stupendo nel "Cuore", ove il papà del Coretti riesce a stringere la mano dell’antico commilitone del quadrato del 49°: pagine da far venire i ‘lucciconi’, ieri come oggi…) e nonno si fecero onore. Era affetto dal complesso della bassa statura, perciò nulla si poté fare, eredità materna: ma seppe, con l’inflessibile guida del precettore, Col.Osio, superare il complesso, seppur non totalmente, come sanno tutti coloro che ne hanno o credono di averne alcuno. Viaggiò per l’istruzione abituale nei quattro continenti, ed apprendeva una miriade di cognizioni, informandosi di tutto e tutto registrando nella sua memoria prodigiosa: fu davvero non un erudito, come alcuni scrissero, ma un autentico uomo còlto, di quella cultura solida e stabile che proviene dalla assimilazione e dalla pratica delle letture colle esperienze della quotidianità. Perciò, da giovine e da vecchio, disprezzava gentilmente i giornalisti, gente dal superficiale nozionismo: non ebbe –se si eccettuano Barzini, Ojetti ed altri pochissimi- certamente torto!
Comandante di corpo d’Armata di Fanteria a Napoli nel 1890, la Regina Margherita ed il Re, prima discretamente poi con insistenza, preoccupàronsi per il futuro della dinastìa, suggerendogli di ammogliarsi, tanto più che il cugino Emanuele Filiberto (alto, più belloccio di lui, mondano quanto egli era schivo da feste e danze) già iva all’altare con Elena di Orlèans, e due anni prima della fin del secolo aveva già Amedeo e Aimone, assicurando la eventuale successione al Trono pel ramo Aosta. Secondo la legge Salica in Italia infatti deve regnare un maschio. Ma il Principe di Napoli, di cui pure si scoprì (tacitato subito) un flirt coll’attrice Tina Di Lorenzo, non voleva ammogliarsi che per amore. Pretesa assurda per un Principe: la madre, cugina del padre, maritata come quasi tutti in famiglia per ragion di stato (infatti fu infelice matrimonio, preferendo a lei Umberto I la contessa Litta) non poteva considerare ciò. Fu il siciliano Crispi a suggerirle la giovine Elena, o Jelèna nella natìa lingua, figlia del re Nicola del Montenegro, educata al prestigioso collegio Smolsky di San Pietroburgo, figlioccia dello Czar Alessandro e di casa dai Romanoff, alta (un metro e ottanta), bella di quella bellezza dinarica che affascina e consola, da’ bruni capelli, raffinata e còlta (scrive poesie e dipinge), educata ai valori della casa e della famiglia tradizionale, ad esser preferita. Per un incontro, poiché il Principe non avrebbe voluto interferenze alcune. Fu davvero ‘colpo di fulmine’, a Venezia prima, alla Biennale d’Arte, poi a San Pietroburgo ove i giovini si rividero per l’incoronazione dello Czar Nicola II (cui Elena si era pensato dovesse andar sposa), poi a Cettigne, antica capitale dello stato dell’Adriatico, in idillio di fidanzamento per qualche mese. Le nozze, dopo l’abiura della Principessa dal cristianesimo ortodosso al cattolicesimo, avvennero a Roma, in Santa Maria degli Angeli, il 24 ottobre 1896, davvero un matrimonio d’amore, nella difficoltà del momento, dopo la disfatta di Adua (tanto che un caporione dei maligni scrisse che erano "nozze coi fichi secchi", non potendo comprenderne la poetica semplicità). Condividevano molto: la pesca, di cui lei era appassionata, la fotografia, collezionavano francobolli e monete: ognun sa quanto sian di gran valore tali affinità elettive. Furono tali, pochi, anni di libertà per la real coppia, sino all’assunzione al trono, che vide il Re asceso dal mare, poiché seppe sulla nave ove si trovava, dell’assassinio di Umberto I: egli venne dal mare per impalmare la bella Elena, come lei stessa scrisse in una sua poesia ("è venuto dal mare, è biondo come sua madre…", nell’entusiasmo di un vero amore) e dal mare ascese a regnare sul popolo d’Italia: D’Annunzio ne echeggiò i destini alti e supremi, subito vergando un carme in tal senso.
Se i primi anni del suo regno furono improntati alla stabilizzazione del clima, dopo il tintinnìo delle sciabole e la carneficina del Pelloux nelle città e la repressione di Fasci socialisti, coi ministeri Zanardelli (durante il quale il Re approvò la discussione sul divorzio, per sfociare solo nel 1970 nella ‘legge Fortuna’) e soprattutto Giolitti, egli dimostrassi, come fu sempre, Re costituzionale, rispettosissimo delle prerogative reali come della lettera e dello spirito dello Statuto albertino, il quale dava la facoltà al Re di lasciar governare il Presidente del Consiglio, riservandosi però di intervenire nei momenti ove irrinunciabile sarebbe stato il suo augusto volere. Quei momenti ci furono, tragici, ed incisi a lettere di fuoco nella storia della nostra Patria. I mestatori, i sobillatori, i pescecani facinorosi, che in Italia sovrabbondano in ogni lustro, godono però nell’ammantare di tenebre quei frangenti che la triste circostanza del destino, le contingenze costrinsero ad assumere un aspetto di sofferenza collettiva: dimenticando artatamente i giorni della Luce, della concordia, dell’Unità nazionale che si compirono regnante Vittorio Emanuele III.
Per non dire dell’opere di beneficenza da lui, e più dalla Regina Elena, promosse e generosamente finanziate (la Sovrana di persona si prodigò nella pietosa opera di inumazione delle salme del terremoto di Messina del 1908, rimanendo giorni e giorni sul posto ad incitare, a confortare, ad asciugare lacrime: per queste ed altre meritevoli opere di carità, il Papa pio XI le consegnava la "rosa d’oro della cristianità", nel 1937: morta nel 1952, è in corso il processo per la sua beatificazione), è la grande guerra, codesto conflitto immenso e sanguinosissimo, le cui conseguenze infinite ancor si scontano fra i popoli d’Europa, che vide rifulgere il valore del Re, il quale da borghese, da autentico aristocratico, da uomo insomma profondamente fuso come l’acciajo de’ cannoni al suo popolo, al passo co’ tempi moderni ben oltre gli atteggiamenti dei predecessori, con uno slancio ed una sincerità che non si ebbero mai né prima, né dopo il suo regno, dichiarata la guerra il fatale 24 maggio del 1915, partiva subito pel fronte, colla semplice divisa grigioverde, le scarpe chiodate, la mantellina da ufficiale senza gradi, ogni dì sfangando tra le trincee, rischiando più volte di essere colpito dagli shrapnell austro-tedeschi. Aveva egli quarantasei anni e cinque figli, di cui uno, l’undicenne Umberto Principe di Piemonte, erede al Trono: un padre di famiglia co’ suoi soldati. Si creò, in quegli anni che erano senza radio, senza cinema se si eccettuano le pellicole del muto a temi ameni,solo colla propaganda dei giornali (si faccia oggi uno sforzo, per imaginarsi novant’anni fa privi delle comodità contemporanee: televisione, telefono, Internet… e si capirà meglio la grandezza del nostro popolo!) una autentica leggenda, di contro ai disfattisti che pure facevano sentire la canèa: il Re tra i soldati, il Re uno di noi. Quanto fosse egli amato, lo documenta un testimone di levatura rara, il letterato Giosuè Borsi: "Tu non vuoi obbedire", scrive al dubitoso amico Fioravanti il 30\8\1915, "al tuo Re, che rischia la vita in campo al tuo fianco, come l’ultimo dei soldati, e allora accetterai di soggiacere alla prepotenza brutale dei tedeschi?" Ed alla mamma, il 1°sett.1915: "I figli della Chiesa sono un esercito in battaglia. Nella stessa maniera noi siamo soldati della Patria; tutti i nostri sforzi, animati dall’amore della nostra terra, convergono a un unico scopo: la volontà del Re… Facciamo la volontà del Re, che è la nostra, condivisa pienamente e ardentemente da ciascuno di noi; ed egli è degno in tutto della nostra devozione obbediente, perché, come Gesù, dandoci per precetto di fare sempre la sua volontà, poi viene giù fino a noi, ci aiuta e soffre e combatte con noi, così il Re sta in mezzo ai suoi soldati, ne condivide i pericoli e i disagi, mettendosi alla pari col più umile di loro". Il Borsi morirà in combattimento il 10 nov.1915 a Plava, nell’alto Isonzo: disperso, si recuperò di lui unica reliquia, un libro della "Divina Commedia", intriso del suo sangue. Così i soldati d’Italia amavano il Re. Anni dopo, Piero Bargellini scriveva: "Il soldato del genio se lo vedeva a fianco nel lavoro; l’artigliere lo scorgeva a un tratto accanto al pezzo che sparava, il fante se lo trovava col viso vicino, a spiare dalla stessa feritoia. Molti non si accorgevano neppure chi fosse quel soldato, che all’improvviso appariva al loro fianco, li fissava coi suoi occhi acuti e irrequieti, chiedeva loro qualche notizia, distribuiva qualche sigaro, e spariva lungo un camminamento o dietro una fila di sacchetti di terra". La grande guerra, fonte di immani disastri ma anche di nuove aurore (nel suo diario, il 13 sett.1918, scriveva "Iddio però non distrugge se non per riedificare", il cappellano militare di Bergamo Don Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII) fu davvero una epopea, che affratellò come mai più avvenne, dal più umile al più grande, tutto il popolo italiano: ciò grazie anche all’esempio personale del Re Vittorio.
Il momento della sublime tragicità giunse a Caporetto: alle invettive dei traditori ("il prossimo inverno non più in trincea!") ed allo sfondamento del fronte, all’invasione, il Re rispondeva con risoluta, maschia virilità, assumendo direttamente il comando della situazione: rimosso Cadorna, un suo uomo, il Diaz, ebbe il bastone di capo delle operazioni militari: ma dietro le quinte, il Re dirigeva, con Vittorio Emanuele Orlando, il valoroso siciliano, a Capo del Governo. Nel convegno di Peschiera dell’otto novembre 1917 fu il Re personalmente che impose, ai capi alleati convenuti che intendevano, dando i rinforzi richiesti, retrocedere nelle linee al Mincio-Adige, la linea del Piave e del Grappa, oltre la quale non si doveva arretrare di un millimetro, e da cui sarebbe partita la riscossa. A Peschiera, scrive Bargellini, il Re precisò che "la vittoria avrebbe spiegato le ali dal Piave e dal Grappa e di lì sarebbe volata poi sugli eserciti alleati". Fu davvero così, e Vittorio Veneto, la presa di Trento e lo sbarco a Trieste, l’avanzata fino Fiume e Pola, compirono non solo l’ultimo atto dell’Unità nazionale contro il medesimo nemico del Risorgimento (come il Re scrisse nel memorabile proclama del novembre 1918) ma sancirono la verità assoluta della volontà del Re nell’avere la più cieca fiducia nel valore del soldato, indi del popolo italiano, in quel frangente storico ove anche i capi si mostravano dubitosi, paurosi, memori di antiche sconfitte. Il Primo Ministro inglese Lloyd Gorge scrisse nelle sue memorie, sul convegno di Peschiera: "rimasi impressionato dalla calma e dalla forza d’animo che egli dimostrò in un momento in cui il suo Paese e la sua corona erano in giuoco: non diede alcun segno di timore o di stanchezza..". Lo stesso nemico, il Generale Conrad (comandante dell’Esercito austro ungarico, durissimo ufficiale), scriveva poi che "Vittorio Veneto ci ha spezzato le reni… è di là che ci è venuto il colpo mortale". Quale miglior esaltazione per le nostre truppe? Esse che morivano per il Re, da cui fior da fiore trascegliamo un solo esempio, tra le medaglie d’oro al valor militare: il capor. Giuseppe Silicani, del 69° regg. Brigata Ancona, "…mortalmente ferito, coll’addome squarciato da una scheggia di granata, incitava e incoraggiava i compagni; agonizzante… spirava dichiarandosi felice di dare la vita per il Re e per la Patria". Sappiamo che molti nelle retrovie piangevano allorché perfino i disertori e gli imboscati, dopo l’ottobre 1917, si presentavano in massa alle armi, per il Re, in nome del Re. Sappiamo che anche nella nostra famiglia, come in tutte le famiglie d’Italia, il nonno che fece ben sette volte alla bajonetta dalle trincee, l’assalto sulle pietraje del Carso, e tornava nel dopoguerra fortunato di non esser mùtilo nelle membra, piangeva nell’udire quella canzone bellissima la quale compendia tali momenti gloriosi, senza retorica e senza fronzoli ma con estrema concretezza: "La leggenda del Piave"; sempre in nome del Re, di quel Re! Le medaglie che furono "coniate nel bronzo nemico", recita la dicitura, portate con orgoglio dall’umile soldato sino al petto di Sua Maestà il Re, colla sua effige calzata dall’elmo e la vittoria sugli scudi, simboli preziosi di quella gloria, son segni infrangibili che non tramontano mai, come il sole dei chiari occhi di quel Sovrano, il quale negli anni seguenti dovette affrontare altre, più terribili prove. Sempre in solitudine, sempre nella correttezza formale della Costituzione. Sempre colla dirittura morale che lo caratterizzò in ogni istante della sua azione.
Il Presidente, oggi emerito, della Repubblica Carlo A. Ciampi, già suo sottotenente di artiglieria nel secondo conflitto, alla TV l’otto di settembre del 2003 spiegò che il trasferimento al sud nel pieno marasma dell’ultima guerra, da molti imputatogli a "fuga", salvò la continuità dello Stato e la costituzione del nuovo governo fu utile per risparmiare ulteriori tragedie alla Nazione. Miglior riscontro, da parte non benevola verso la sua memoria, non poteva rendergli il capo dello stato italiano.
Vogliamo ricordare così Vittorio Emanuele III: le scelte del Ventennio, per cui (dai memoriali dei suoi aiutanti di campo, lo Scaroni nel periodo 1933-35, ed il Puntoni negli ultimi sei anni di regno) il Duce, Benito Mussolini, è definito volta per volta, con acutezza, "uomo buono", "uomo di cuore", "una gran testa", spiegandone minuziosamente le ragioni, sono consegnate alla storia, obiettiva, che già sta facendo il suo dovere per far rifulgere la memoria del Re, nel suo giusto valore, riguardo quegli anni, comunque di grandezza per l’Italia, che vide la gran parte della cittadinanza migliorare socialmente, economicamente e nel prestigio interno ed internazionale, tanto che molti dei benefici effetti di quel periodo sono attuali oggi. Ma Vittorio Emanuele III fu solo a dirigere lo Stato, abbandonato da tutti coloro, specie gli antifascisti, poi lesti ad attaccarlo con inaudita ferocia: "Nei momenti difficili", diceva al Puntoni il 26\1\1941, "tutti sono capaci di criticare e soffiare sul fuoco: pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo ‘questa gente’ perché tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore ed al comandante del corpo d’armata perché gli italiani non si ammazzassero fra loro". Un intendimento dolorosissimo, quello di evitare il più possibile la guerra civile, che il Re mantenne due anni dopo: "la cobelligeranza ottenuta dal mio governo", disse nel 1944 al giornalista catanese Nino Bolla, "salvò parecchie cose, compresi gli interessi personali di molti antimonarchici, specie dell’ultima ora, che con il loro carico d’odio non sarebbero rientrati allora senza la cobelligeranza". Era nondimeno consapevole, gia anziano, che un’epoca eccezionale si chiudeva con lui: lo scrisse a futura memoria, nella lettera indirizzata il 21\10\1943 al generale McFarlane, capo della commissione Alleata, ove prospettava non solo la sua abdicazione, ma la libera scelta della forma istituzionale, quale il popolo avesse voluto. Si può quindi in qualche modo dire che fu Vittorio Emanuele III a ‘decidere’ anche la repubblica. Unicamente in base al suo dettame di Re costituzionale: "Io ho ubbidito unicamente e sempre alla volontà del Paese", ripetè sovente; anche se, affermò al figlio Umberto cui, con la Luogotenenza dopo la liberazione di Roma e poco prima dell’abdicazione, lasciava di scrivere l’ultima solenne pagina di quel periodo irripetibile, "posso aver sbagliato". Nessuno, si notò con oculatezza, allora dei coprotagonisti della scena storica, ammise alcun errore: poteva farlo solo un uomo dolce e sensibile, davvero simbiòtico col popolo italiano di cui fu il più amato Sovrano; colui che chiamava la Regina, semplicemente, "mia moglie", e per la quale raccoglieva violette e ciclamini sovente, agli angoli delle strade, in tenero affetto. Al molo di Posillipo, ore 19,40 del 9 maggio 1946, donde partì coll’incrociatore "Duca degli Abruzzi", v’erano a salutare il Re e la Regina pochissimi: tra questi, i marchesi Romeo delle Torrazze di Catania, fedelissimi dei Sovrani. Napoli lo vide nascere, Napoli lo vide partire. Chi si è staccato a sera da quel molo verso il mare, può forse comprendere la struggente malinconia delle ombre che calano sulle acque. Il Re "chinato verso ogni bella ferita \ ch’è rosa del suo regno; \ chinato verso il sorriso dei morti, \ verso il sorriso immortale dei morti, \ che è l’alba del suo regno" (cantava il D’Annunzio nel poema delle gesta della grande guerra), solo allora, pianse. In silenzio. Sul mare. Forse.
I Sovrani celebrarono le nozze d’oro in esilio, nella bella città egiziana ove nacque Ungaretti, anch’egli cantore della guerra sublime: "nell’aria spasimante \ involontaria rivolta \ dell’uomo presente alla sua \ fragilità" (Fratelli). In una poesia del vecchio Nicola del Montenegro, il padre della Regina Elena, v’ha un verso che pressappoco afferma: "non troverai la felicità sul Trono, ma in famiglia". Tornerà presto, colla Regina, il suo corpo dall’esiglio infausto, per riposare finalmente nel romano Pantheon assieme agli avi, nella riescita concordia nazionale per le patrie memorie? Lo crediamo, la storia rende giustizia ai giusti.
Egli, il Re Soldato –e rimarrà sempre tale nel cuore del popolo italiano- anche dal trono ebbe fonti di gran gioja: ma la felicità autentica, caso raro in ogni tempo, la còlse in famiglia, una felice famiglia, ove l’amore si coltivò con spontaneità e semplicità d’altri tempi. Amore all’antica. Anche per questo, fu un grande Re, un vero Re.
Francesco Giordano